La caduta di Roma
Quando un paese subisce una disfatta, inventa o esagera dei "gloriosi episodi" su cui richiamare l'attenzione dei contemporanei e dei posteri e distrarla dal risultato finale e complessivo. Ecco perché gli "eroi" allignano soprattutto negli eserciti battuti. Quelli che vincono non ne hanno bisogno. Cesare, per esempio, nei suoi Commentari non ne cita nessuno (p. 50).
Ma da questi guadagni [successivi alla vittoria nella seconda guerra punica] prese anche l'avvio una trasformazione della vita romana che non doveva rivelarsi benefica per le sorti dell'Urbe. (...) I tributi che pagavano gli stati soggetti, a suon di miliardi, anno per anno, praticamente facevano di ogni romano un rentier e lo svogliavano dal lavoro. (...) I costumi si addolcirono e ammollirono. Sorse quella che oggi si chiamerebbe una social life con salotti intellettuali e progressisti. La fede negli dèi si indebolì come quella nella democrazia, (...). La crisi non precipitò subito. Ma è in questi anni, seguiti alla catastrofe di Cartagine, che se ne creano le premesse (p. 131).
(...) Catone deplorò, giustamente, che per la prima volta nella storia di Roma i meriti combattentistici di un imputato facessero ostacolo alla giustizia, e in questo denunziò il primo trapelare di un individualismo che presto avrebbe corrotto la società col culto dell'eroe e distrutto la democrazia (p. 146).
A un uomo come lui [Polibio], che arrivava fresco di Grecia, dove lo scetticismo e l'incredulità non avevano più limiti, si capisce che i romani, i quali un barlume di fede lo conservavano, dovevano far l'effetto di altrettanti monaci. Ma si trattava proprio di un barlume (...) (p. 149).
Da quel momento la liturgia greca si diffuse (...). E il risultato fu che, da austera e piuttosto lugubre, qual era stata sino ad allora, diventò allegra e carnevalesca. Nel 186 il Senato apprese con allarmato stupore che il popolino si era particolarmente affezionato a Diòniso, ne aveva fatto il suo santo preferito, riempiva il suo tempio, e gli sacrificava con particolare entusiasmo. Se ne capisce facilmente la ragione: i sacrifici consistevano in pantagrueliche mangiate, in gagliarde bevute, e in un disfrenamento dei rapporti fra uomini e donne. Insomma, erano tutto fuorché "sacrifici" (p. 150).
Ma tutto questo allentamento di freni avvenne soprattutto perché spirava in aria un vento di "libero pensiero". Lo avevano portato i "greculi", come li chiamavano per dileggio i romani, un dileggio che non impediva loro di prenderseli per maestri. Prigionieri di guerra importati da laggiù in condizione di ostaggi e di schiavi, furono infatti i primi grammatici, retori e filosofi, che aprirono scuole a Roma (p. 155).
Fu in uno di questi salotti [degli ambienti "culturali" del tempo] che si preparò la rivoluzione. La quale, contrariamente a quel che si crede, non nasce mai nelle classi proletarie, che poi le prestano la mano d'opera; ma in quelle alte, aristocratiche e borghesi, che poi ne fanno le spese. Essa è sempre, più o meno, una forma di suicidio. Una classe non si elimina che quando si è già eliminata da sé (p. 157).
Poiché tutto dipendeva dal denaro, il denaro era diventato la sola preoccupazioni di tutti (...). Roma era ormai diventata una pompa che succhiava quattrini in tutto il suo Impero per consentire a una categoria di satrapi una vita sempre più fastosa e un lusso sempre più insolente (p. 182).
Clodia, la moglie di Quinto Cecilio Metello, era quei tempi la "prima signora" della città, e faceva scuola alle altre. Essa era femminista (...), affermava il diritto alla poligamia anche per le donne, e lo praticò senza risparmio, (...). Il matrimonio con mano, cioè quello che non ammetteva il divorzio, era praticamente scomparso, appunto per consentire ai coniugi di rinnegarlo quando volevano. E bastava, per farlo, una semplice lettera. Figli non se ne volevano, perché sarebbero stati un impaccio (p. 186).
I gusti letterari di questa società ricca e frivola non si orientarono verso il più grande poeta e scrittore del tempo, Lucrezio. (...) A furoreggiare era Catullo, poeta facile e sentimentale, qualcosa di mezzo fra Gozzano e Géraldy (p. 187).
(...) tutti i romani ricchi, diventati sensibili alla "cultura" anche quando non ne avevano. (...) Il libro era diventato guarnitura d'obbligo in ogni casa che si rispettasse, anche se poi non lo si leggeva (...) (p. 246).
In genere, sebbene la si sia chiamata Periodo Aureo, l'epoca di Augusto non vide una fioritura letteraria e artistica da confrontarsi con quella della Grecia di Pericle o dell'Italia del Rinascimento. Sotto quell'imperatore borghese, si sviluppò un gusto altrettanto borghese che prediligeva ciò che è medio, e ciò che è medio spesso è mediocre (p. 247).
S'ingrassava. La statuaria di questo periodo, a confrontarla con quella della Roma stoica, tutta di figure secche e angolose, ci mostra un'umanità allentata e arrotondita dall'ozio e dalle indulgenze dietetiche (p. 296).
La depressione di Wall Street nel 1929 ebbe il suo precedente a Roma quando Augusto, tornando dall'Egitto con l'immenso tesoro di quel paese in tasca, lo mise in circolazione per rianimare i traffici che languivano. (...) Le industrie e le botteghe che vi attingevano non poterono pagare i fornitori e dovettero chiudere anch'esse. Il panico dilagò. Tutti corsero a ritirare i loro depositi dalle banche (pp. 304-305).
Quando Augusto assunse il potere, il calendario romano conosceva settantasei giorni di festa, press'a poco come oggi; quando il suo ultimo successore ne decadde, ce n'erano centosettantacinque, cioè una festa un giorno sì ed uno no (p. 306).
Mentre il teatro scadeva così nella rivista di varietà, sempre più cresceva la fortuna del Circo (p. 307).
Il primo numero fu la presentazione di animali esotici, molti dei quali i romani non avevano ancora mai visto (p. 308).
Seguivano i combattimenti fra gladiatori, (...) Roma e i suoi imperatori non potevano fare a meno di questa carne umana da macello (p. 309).
Questo modo di divertirsi al sangue e alla torture non sollevava obbiezioni nemmeno fra i moralisti più severi (p. 310).
Soltanto Seneca ci ha lasciato una condanna dei giuochi gladiatori che dice di non aver mai frequentato. Egli andò a visitare il Circo Massimo una volta sola, e rimase sbigottito. "L'uomo, la cosa all'uomo più sacra, qui viene ucciso per sport e divertimento" disse tornando a casa (p. 311).
Era il 31 dicembre del 192 dopo Cristo. Cominciava la grande anarchia. (...) Il Senato era caduto in basso, (...) (p. 334-335).
Settimio governò per diciassette anni, rivolgendosi al Senato solo per impartirgli ordini, e quasi sempre guerreggiando. Egli introdusse una grande e pericolosa novità: il servizio militare obbligatorio per tutti, ad eccezione degli italiani, ai quali invece era proibito. Era il riconoscimento della decadenza guerriera del nostro paese e della sua irrimediabilità (p. 336).
Dopo Nerone, l'ostilità nei loro riguardi [dei cristiani] diventò un'ondata di fondo, e la legge che proclamava delitto capitale la professione della nuova fede non fu il ghiribizzo di un imperatore a suggerirla, ma un fremito di odio collettivo a suscitarla. (...) La persecuzione cominciò a diventare sistematica con Settimio Severo che proclamò delitto il battesimo. (...) Sei anni dopo, sotto Valeriano, il papa stesso, Sisto II, fu messo a morte. (...) e allora l'imperatore [Diocleziano] ordinò che tutte le chiese cristiane fossero rase al suolo, tutti i loro beni confiscati, i loro libri bruciati, i loro adepti uccisi (pp. 354-355).
Egli [Costantino] doveva essere rimasto molto colpito dalla superiore moralità dei cristiani, dalla decenza della loro vita, (...). Essi avevano formidabili qualità di pazienza e di disciplina. E ormai, se si voleva trovare un buon scrittore, un bravo avvocato, un funzionario onesto e competente, era fra loro che bisognava cercarlo. Non c'era, si può dire, città in cui il vescovo non fosse migliore del prefetto (p. 357).








.jpg)
