giovedì 30 ottobre 2025

Liberare la vita dal bisogno di controllo

Noi chiamiamo “vita” tutto ciò che rientra nei nostri piani, nei nostri progetti; coltiviamo così la grande illusione di poter controllare la nostra esistenza e quella degli altri. Ancora di più: pensiamo che la vita sia solo ciò che cade sotto il nostro controllo, sia solo ciò che combacia perfettamente con le nostre pianificazioni; gli imprevisti invece sarebbero degli errori di percorso da ridurre il più possibile e che in un mondo ideale non dovrebbero esserci. L’uomo culla l’illusione (delirante) che un giorno grazie al progresso tecnico-scientifico tutto sarà prevedibile e controllabile. 
Si è già detto in questo blog che di scienza molto parla chi poco la pratica, perché chiunque pratica la scienza seriamente sa che il rigore scientifico non serve a controllare la vita ma a controllare che le nostre affermazioni siano aderenti alla realtà, cioè a verificare quanto c'è di vero in quello che diciamo (nei limiti dell’intelletto umano); in questo modo ovviamente riusciamo a conoscere qualcosa della realtà e, quindi, a prevedere e a prevenire alcuni pericoli, ma pensare che la funzione e, soprattutto, la bellezza della scienza si riducano a questo è tipico di chi non solo non pratica la scienza, ma interpreta la vita come una difesa dagli imprevisti. La bellezza della scienza e della vita sta nel piacere della scoperta, nell’incertezza di intraprendere un percorso senza sapere con esattezza dove porterà - molte scoperte scientifiche infatti sono avvenute per caso o per esiti non previsti dallo sperimentatore -. Chi non è aperto all'incertezza, all'imprevisto, al dubbio non è aperto né alla scienza e nemmeno alla vita... That's life! Si chiama vita perché non la controlliamo noi, se la controllassimo noi non sarebbe più vita, ma abitudine. Che è peggio della morte biologica quando prende il posto della vita. Molte persone sono morte ancora prima di morire perché hanno soffocato la vita nell'abitudine, nella routine, nella burocrazia, nelle pratiche da evadere; per cui quando moriranno sulla loro lapide si potrà incidere il seguente epitaffio: “È stata evasa l’ultima pratica". 

Quanto tempo perso a pianificare minuziosamente ogni aspetto della realtà, a verificare ossessivamente se abbiamo chiuso bene tutti i "rubinetti" della nostra esistenza - e li abbiamo chiusi infatti così bene da non farci passare più nemmeno una goccia di vita -. Abbiamo intellettualizzato a tal punto tutta questa messinscena da darle pure una terminologia pseudotecnica: la chiamiamo "difesa contro l'angoscia di morte". In realtà sono difese contro la vita. Questi controlli continui sono opere morte; siamo morti ancora prima di morire. Non esiste nessuna difesa contro la morte. O si vive o si muore, non esiste una zona franca in cui non siamo né vivi né morti, in cui coltivare l’illusione di mettere in pausa sia la vita che la morte. 

In questa messinscena con la quale scambiamo la vita con la morte e la verità con la menzogna, siamo convinti che questo esasperato bisogno di controllo sia l'espressione di un sano senso di responsabilità.

Ci sono studi di psicologia cognitiva che mostrano come l'ossessivo bisogno di controllo sia proprio una difesa contro la responsabilità. Come ha acutamente mostrato il Prof. Francesco Mancini, chi mette in atto comportamenti compulsivi di controllo non è mosso da una tensione altruistica ad evitare un'eventuale sventura; è solo interessato che non sia lui ad essere incolpato di un possibile disastro: se l'ossessivo ha infatti la certezza che non sarà ritenuto responsabile di una eventuale sciagura, non mette più in atto i suoi controlli e i suoi rituali ossessivi.

Pertanto il bisogno di controllo è accompagnato da una sorella gemella: la paura di assumersi delle responsabilità. Paura che tiene bloccate le persone nell’indecisione. Perché se si prende una decisione c’è il rischio di sbagliare, e si sbaglia c’è il rischio di essere ritenuti responsabili (della decisione presa). Quindi meglio non esporsi, non assumersi alcuna responsabilità. 

Oltre ai contributi che provengono dalla psicologia cognitiva, c’è un famoso episodio storico che è la plastica fotografia di quanto appena detto: la battaglia di Caporetto. Sentiamo cosa dice Indro Montanelli della storica disfatta che costò all'Italia 12.000 morti, 30.000 feriti, quasi 300.000 prigionieri, una perdita di territorio di circa 14.000 km², e la frettolosa chiamata alle armi dei ragazzi del 1899 (molti dei quali non avevano ancora compiuto diciott’anni):

“Lo «spirito d’iniziativa» – cioè la prontezza dei riflessi, l’inventiva, la fantasia – veniva esaltato solo nel «Regolamento» e nei pedestri e antiquati manuali di tattica. In realtà quella militare era una burocrazia resa ancora più rigida dall’uniforme, per la quale lo spirito d’iniziativa era sinonimo d’insubordinazione. Ho conosciuto dei Generali che avevano più paura delle responsabilità che del nemico. E Rommel, nei suoi ricordi di Caporetto, racconta di essere rimasto sbalordito dalla incapacità dei comandanti italiani, quando si videro presi da tergo, di adeguarsi alla nuova situazione. È noto che seicento cannoni rimasero puntati verso le alture, anche quando fu chiaro che gli Austro-tedeschi attaccavano lungo i fondivalle, perché il comandante non voleva assumersi la responsabilità di cambiarne la postazione. Di questi episodi, nella seconda guerra mondiale, ce ne furono a centinaia.”

L'ultima frase di Indro Montanelli è un monito ad apprendere dalla Storia perché ciò che da essa non si impara si è destinati a riviverlo.

In conclusione: l'unico controllo che dovremmo preoccuparci di effettuare è verificare se siamo ancora vivi. 

Da cosa ci accorgiamo di essere ancora vivi?

Da quanto siamo aperti all'incertezza, all'imprevisto, al dubbio; da quanto siamo disposti ad assumerci la responsabilità di ciò che abbiamo scelto e, soprattutto, di ciò che non abbiamo scelto ma che la vita ci ha posto di fronte. 

E allora il Piave smetterà di mormorare per il sangue versato e tornerà a sorridere per il fluire della vita..




lunedì 27 ottobre 2025

Scienza e Pace

 


Quando non comprendiamo per nulla le cause di un atto - nel caso di un delitto, di un’opera buona o magari di un atto indifferente, rispetto al bene od al male: fa lo stesso - noi riconosciamo in tale atto la massima libertà. Nel caso di un misfatto, noi soprattutto ne chiediamo la punizione; nel caso di un’opera buona, soprattutto apprezziamo l’atto. In un caso indifferente riconosciamo il massimo di individualità, di originalità, di libertà. Ma se anche una sola delle innumerevoli cause ci è nota, noi già riconosciamo una certa dose di necessità e meno esigiamo il castigo per il delitto, minor merito riconosciamo nell’atto virtuoso, e meno libertà nell’atto che pareva originale (Tolstoj, Guerra e Pace).

domenica 26 ottobre 2025

La psicoterapia è efficace?

Prima di poter dire se la psicoterapia è efficace, cioè prima di poter dire quali terapie psicologiche sono efficaci per quali disturbi mentali, bisogna fare una breve introduzione sul modo in cui si conducono gli studi sperimentali in medicina ed in psicologia. 

Le principali ricerche scientifiche in medicina e in psicologia si dividono in due categorie: gli studi clinici randomizzati, RCT - dall'inglese randomized clinical trials -; e gli studi correlazionali. I primi permettono di identificare un nesso di causa-effetto tra un determinato trattamento ed i benefici osservati. I secondi evidenziano correlazioni (cioè associazioni) tra due variabili, come ad esempio tra il fumo di sigarette ed i tumori; si osserva ad esempio che tra i fumatori insorgono tumori in maniera significativamente superiore rispetto ai non fumatori. Nelle ricerche correlazionali non si “manipola” nessuna variabile in laboratorio, semplicemente si osserva l’associazione tra due variabili o fenomeni. Di conseguenza le ricerche di tipo correzionale non sono sufficienti per dimostrare l'efficacia di un trattamento. Non è sufficiente limitarsi ad osservare che a fronte di una determinata terapia si osserva un aumento delle guarigioni, bisogna dimostrare in studi clinici controllati (noti con l'acronimo RCT) che la guarigione è dovuta ragionevolmente all'esclusiva azione di quel determinato trattamento e non ad altri fattori (variabili) non considerati dallo sperimentatore. Gli RCT sono studi rigorosi in cui si isola la variabile da studiare (il trattamento in esame) da tutte le altre variabili che potrebbero giustificare una guarigione o una remissione dei sintomi. Quando una terapia medica o psicologica è dimostrata efficace in tali studi, si può parlare di terapia evidence-based. 

Quali sono i trattamenti psicologici evidence-based (efficaci)?

Per rispondere a questa domanda bisogna rivolgersi all'American Psychological Association (APA), che classifica per la psicologia gli empirically supported treatments (EST). Chi fosse interessato, li trova in questo link, cliccando sulle voci “current treatments” e “archived treatments” si aprirà un menù a tendina con i vari disturbi mentali (o aree funzionali) e i relativi trattamenti psicologici con il grado di validità empirica a supporto (strong, modest, weak, ad esempio). I trattamenti psicologici sono raggruppati per disturbi mentali, evidenziando che: 1) è la diagnosi che detta il campo alle terapie; 2) non esiste una terapia che sia indipendente dal disturbo da trattare. Come d’altra parte avviene per la medicina; sono le malattie a porre la necessità di ricorrere ai trattamenti per debellarle, e non il contrario. Il punto di partenza è sempre il disturbo con la relativa corretta diagnosi. Da noi invece sembra che sia il contrario; il punto di partenza sembra essere la psicoterapia, dando per scontato che essa sia efficace sempre e per tutti i disturbi, senza la necessità di doverlo dimostrare. 

In Italia purtroppo c’è una forte reticenza a fare studi sperimentali rigorosi sull’efficacia delle psicoterapie, per due motivi: uno nobile ed un altro meno nobile.

Partiamo da quello nobile. Culturalmente gli italiani come tutti gli europei hanno una spiccata propensione alla speculazione filosofica, per cui le teorie psicologiche sviluppate da noi si situano spesso al confine tra psicologia e filosofia e, pertanto, non sono suscettibili di essere verificate attraverso studi sperimentali. Per poter verificare sperimentalmente una teoria è necessario che la teoria non abbia spiccati elementi filosofici. Non perché la filosofia non sia una forma rigorosa di conoscenza ma perché le teorie filosofiche - che si rivolgono alle realtà generali - possono essere dimostrate o confutate solo con la logica, e non in laboratorio. Solo gli enunciati scientifici che si rivolgono alle realtà particolari possono essere dimostrati sperimentalmente. Gli americani e gli inglesi sono più pragmatici e meno portati alla speculazione filosofica, pertanto le teorie psicologiche che provengono dal mondo anglosassone sono più scientifiche nel senso che sono più suscettibili di essere vagliate sperimentalmente. 
Per evitare di mutare le differenze antropologiche in differenze di valore, diciamo subito che il mondo è bello perché vario e, soprattutto, è bello perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. Noi abbiamo bisogno del pragmatismo anglosassone e gli anglosassoni hanno bisogno della nostra speculazione filosofica. L’importante però è che il piano della filosofia sia distinto chiaramente dal piano delle scienze particolari (nelle quali rientra anche la psicologia), come più volte ribadito in questo blog.
Purtroppo è tanta da noi la confusione tra scienza e filosofia che tale confusione si riscontra persino in scienze considerate più solide come la fisica. Ad esempio, le teorie sull’origine dell’universo sono spesso più filosofiche che scientifiche, perché si rivolgono ad una realtà generale - l’origine del tutto - e perché nessuno è in grado di riprodurre in laboratorio l’origine dell’universo. La scienza vive di studi di laboratorio e della replicabilità di uno stesso studio da parte di sperimentatori diversi. Perché questo è il modo migliore per dimostrare che una teoria, un enunciato, un’ipotesi rispecchino davvero la realtà (particolare) a cui si rivolgono e non sono delle mere visioni soggettive di chi ha avanzato l’ipotesi. Se una teoria non può essere dimostrata sperimentalmente non è scientifica; nella migliore delle ipotesi è filosofica, se è possibile dimostrarla o confutarla con la logica. Se non è possibile nemmeno questo, siamo nel campo della fede. Non ho nulla contro la psicologia filosofica, anzi, è necessaria, come è necessaria una filosofia della natura; probabilmente per la psicologia la filosofia è più necessaria di quanto non lo sia per la fisica o per la medicina. Tuttavia, se uno studioso si pone l’obiettivo di applicare le proprie teorie alla cura dei disagi e dei disturbi mentali passa dal livello filosofico della psicologia a quello scientifico, e sono pertanto necessari studi sperimentali per dimostrarne l’efficacia. La psicologia non può esimersi da questo. Altrimenti dobbiamo limitarci a credere all’autorevolezza di chi ha elaborato un trattamento psicoterapeutico, senza poterne verificare l’efficacia. Ma questa non è scienza, è fede.

Questi erano i motivi nobili per cui da noi si fa poca ricerca scientifica. Ora diciamo qualcosa sui motivi meno nobili. 

È meglio limitarsi a sbandierare la scienza come vessillo ideologico piuttosto che praticarla realmente, perché la ricerca scientifica fa cadere gli interessi di parte. Se si fa ricerca scientifica seriamente, poi bisognerà anche mostrare pubblicamente gli esiti di queste ricerche e dire, come fa l’APA, quali sono le terapie psicologiche empiricamente validate. E, di conseguenza, queste ultime attireranno il maggior flusso di finanziamenti pubblici e privati a scapito delle terapie che non dispongono di studi empirici a loro supporto, e quindi si ridurrebbe l’eccessiva proliferazione di indirizzi e di scuole di specializzazione in psicoterapia che caratterizza il panorama italiano. Meglio quindi coltivare posizioni di comodo, e non esporsi troppo con la ricerca scientifica. Ma la psicologia quando fa clinica, cioè quando vuole trattare i disturbi mentali, diventa una scienza come la medicina. E come la medicina ha bisogno di studi sperimentali a supporto dei suoi trattamenti. In assenza di rigorosi studi sperimentali possiamo solo fare un atto di fede a favore di tale o talaltro psicoterapeuta. 

Confido tuttavia che il riconoscimento della psicologia come professione sanitaria avvenuto in Italia con la legge 3 del 2018 possa aprire negli anni a venire maggiori spazi per la ricerca sperimentale anche da noi.


sabato 25 ottobre 2025

Guerra e Pace (Tolstoj)

-[…] I salotti, i pettegolezzi, i balli, la vanagloria, la nullaggine: ecco il cerchio magico dal quale non posso uscire. Ora vado in guerra, alla più grande guerra che mai sia stata, e non so nulla e non son buono a nulla. […] E questa stupida società […] Egoismo, vanità, ottusità, nullaggine in ogni cosa […] Se le guardi in società […] nulla, nulla, nulla!

- Mi sembra  buffo - disse Pierre - che voi, voi vi stimiate inetto e che stimiate la vostra vita una vita rovinata. Voi avete tutto, tutto dinanzi a voi. […]

Pur nelle migliori, più amichevoli e più semplici relazioni la lusinga e la lode sono indispensabili, come il grasso è indispensabile alle ruote perché girino.

- Je suis un homme fini - disse il principe Andrei. - A che parlare di me? Parliamo di te - disse dopo un po’ di silenzio, sorridendo a certi suoi consolanti pensieri. […]

- Ma di me che c’è da dire? - proferì Pierre, allargando la bocca in uno spensierato, allegro sorriso. - Che cosa son io? Je juis un batard. […]

Il principe Andrei lo guardava con occhi buoni. Ma nel suo sguardo, amichevole, affabile, si esprimeva tuttavia la coscienza della propria superiorità.
- Tu mi sei caro specialmente perché sei la sola persona viva fra tutto il nostro mondo. Tu ti trovi bene. Scegli quello che vuoi; è indifferente. Dappertutto starai bene, una cosa però: smetti di andare da quel Kuraghin e di condurre questa vita. Sono cose che non vanno per te tutte quelle baldorie, e la vita da ussaro, e tutto…


giovedì 23 ottobre 2025

Overdose di formazione

Ultimamente assistiamo ad un'eccessiva offerta di corsi di formazione, che fa il paio con l'eccessiva offerta di approcci e di scuole di specializzazione in psicoterapia (di cui ho parlato qui). Dietro questa proliferazione di corsi di formazione, ad ogni livello e in ogni ambito, c'è la convinzione che ogni problema dell'uomo si risolva aumentando la formazione. Violenza sulle donne? Facciamo più formazione nelle scuole. Bullismo? Facciamo più formazione nelle scuole. Incidenti stradali? Facciamo più formazione nelle scuole. Ormai credo che nelle scuole si passi più tempo a discutere dei temi di attualità che a studiare la storia, la geografia, la matematica, la letteratura, ecc. Come se queste materie non fossero già formative (dell'uomo nella sua interezza); come se il "naturale" rapporto insegnante-allievo non fosse formativo e avesse bisogno di continui aiuti esterni da parte di tecnici e consulenti per renderlo tale. Sulla reale efficacia di questi corsi di formazione ci sarebbe molto da dire - e qualcosa dirò in questo post -, nonostante si presentino sempre con il bollino del "fondato scientificamente". Un effetto iatrogeno (collaterale) di questi corsi però è abbastanza evidente: se gli insegnanti o i genitori per educare devono ricorrere continuamente all'ausilio di esperti, inevitabilmente la loro autorità agli occhi degli studenti e dei figli uscirà diminuita. E se l'autorità di insegnanti e genitori viene messa in discussione, si indeboliranno di conseguenza anche le strutture morali dei ragazzi che si fondano su quell'autorità, e non certamente sui corsi di formazione da parte di consulenti terzi. E se si indeboliscono le strutture morali, aumentano di contro i fenomeni devianti.

Quindi se vogliamo ridurre i comportamenti devianti la prima cosa da fare è ricostruire l'autorità, da troppo tempo screditata, di insegnanti e genitori; e non fare incetta di corsi di formazione.

Ma diciamo ora qualcosa sulla scientificità (vera o presunta) di questa formazione. Che cosa significa "fondato scientificamente"? In termini generali "fondato scientificamente" significa semplicemente fondato sull'evidenza (che le cose stanno effettivamente così), cioè fondato sui fatti, sulla realtà e non, ovviamente, sull'opinione di chi propone una teoria od organizza un corso di formazione. Quindi se "fondato scientificamente" significa "fondato sull'evidenza", le materie che si studiano a scuola su che cosa sarebbero fondate se non sull'evidenza? La storia, ad esempio, poggia sulle invenzioni dei professori o sulle fonti, sui documenti e sulle testimonianze storiografiche? La geometria che si insegna a scuola poggia sui teoremi di Pitagora e di Euclide o sulle fantasie dei professori di matematica? Se quindi la scuola è già "fondata scientificamente" a che servono questi continui rinforzi "scientifici"? Servono ai ragazzi o a chi organizza i corsi di formazione? 

C'è poi un significato un po' più specifico del "fondato scientificamente", che riguarda ad esempio la medicina, ed è quello dell'evidence-based medicine (medicina basata sull'evidenza), che può essere definita come "l’integrazione delle migliori prove di efficacia clinica con l'esperienza e l’abilità del medico ed i valori del paziente". Tre elementi caratterizzano quindi l'evidence based practice: 1) prove scientifiche a supporto di un determinato trattamento; 2) competenze del medico; 3) valori e preferenze del paziente. L'American Psychological Association (APA) da alcuni anni sta cercando di introdurre anche in psicologia l'evidence-based practice. Pratica che in Italia incontra non poche resistenze.   

Oggi in Italia ci sono così tanti approcci di psicoterapia per cui la situazione italiana risulta lontana dalle linee guida dell'APA sull'evidence-based practice. Quindi prima di entrare nelle scuole e nelle famiglie per “educarle” sui temi di rilevanza psicologica, dovremmo guardarci in casa nostra e: 1) verificare - cioè fare ricerche scientifiche su quali interventi psicologici sono efficaci per quali disagi; 2) verificare le nostre competenze; 3) verificare se quello che proponiamo è in linea con i valori e le preferenze del paziente (o delle famiglie nel caso della formazione a scuola). 

Si fa questo in Italia? Da noi purtroppo di scienza si parla molto perché la si pratica poco. 


martedì 21 ottobre 2025

Le élite culturali

In alcuni precedenti post (qui e qui) ho denunciato la responsabilità dei cristiani nell'aver rinunciato a fare cultura in Occidente e nell'essersi trincerati dietro una sterile difesa della dottrina - parlo dell'Italia, nelle altre principali nazioni europee non c'è più nemmeno una difesa della dottrina cristiana, quindi di fatto non esiste più nemmeno il cristianesimo - e dietro presunte attività profetiche (vedasi Medjugorje).    

In questo post proverò quindi a parlare di cultura e di chi attualmente detiene il potere e la capacità di farla.

Generalmente per cultura si intende l'insieme di conoscenze e credenze che informano i costumi di una società; la cultura informa anche l'ordinamento legislativo, perché è la cultura che fornisce al potere legislativo i contenuti riguardanti quali comportamenti approvare e quali invece sanzionare.

Particolarmente interessante è la definizione che Gramsci dà della cultura: "È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri". 

Gramsci attribuisce alla cultura non solo il compito di dare forma ai comportamenti esteriori che caratterizzano la convivenza sociale dell'uomo, ma una funzione più profonda di formazione della propria personalità e del proprio io interiore. Il collegamento tra cultura e personalità è corretto, noi psicologi infatti sappiamo che i problemi psicologici sono nel piccolo la manifestazione di più ampi problemi culturali. Qui però terminano le convergenze con Gramsci che, come è noto, aderì al marxismo, il quale nega qualsiasi interiorità all’uomo, la cui dimensione storica si esaurirebbe tutta nelle strutture economiche del proprio tempo. Si è detto nel post precedente che per ognuno di noi il mondo cambia se cambiamo noi stessi, ognuno deve fare lo sforzo di cambiare il mondo cambiandolo dentro di sé, cioè prendendo consapevolezza che dentro di sé nel piccolo sono racchiusi i grandi problemi del tempo storico che gli è dato da vivere. Senza questa presa di consapevolezza si rimane psicologicamente degli adolescenti, indipendentemente da quale età anagrafica si abbia. Il materialismo storico di Marx nega all’uomo ciò che più lo rende umano: la sua interiorità, ovvero la sua duplice dimensione spirituale e psicologica; e questa duplice dimensione interiore dell'uomo è sia ontologica che storica. Per i marxisti invece la dimensione ontologica e storica dell’uomo sarebbe un semplice riflesso delle strutture sociali (economiche, in particolare) nelle quali è inserito. Nelle classi sociali risiede la vera essenza dell’uomo, secondo il marxismo; e non in tutte le classi sociali, ma in una sola, il proletariato. Questa è una concezione dell’uomo intrinsecamente razzista, violenta e discriminatoria, perché se tra tutti gli uomini solo alcuni sono portatori di una verità storica ed ontologica, allora a questi è concesso fare qualsiasi cosa in virtù proprio della verità di cui sarebbero portatori. Al contrario, ogni essere umano nella sua interiorità è portatore di una verità storica ed ontologica, indipendentemente dal reddito o da altre differenze di carattere sociale. Chi crede che la filosofia non sia una cosa seria, dovrebbe collegare la diffusione del marxismo come filosofia dominante con l’esplosione di violenza che ha caratterizzato la storia europea del Novecento. E purtroppo il marxismo non ha ancora esaurito la sua onda lunga. Con la definitiva sconfitta delle potenze europee al termine della seconda guerra mondiale gli americani hanno esportato in Europa il loro modello di democrazia ma hanno importato da quest'ultima la sua filosofia dominante, quella marxista appunto, adattandola al loro contesto, che vede fratture sociali non lungo le linee economiche, come in Europa (almeno fino alla fine del Novecento), ma lungo le linee etniche e sessuali. Lì non sono le differenze di reddito a determinare quali sono le classi sociali investite di una verità storica da imporre - con le buone o con le cattive - al mondo, ma le differenze etniche, sessuali, o, come si dice oggi, di genere. Il marxismo americano e quello europeo hanno in comune il ripudio del cristianesimo e la pericolosa convinzione che ad alcune categorie di persone è concesso fare qualsiasi cosa perché sarebbero portatori di una verità, di una soggettività superiore a quella di altri esseri umani. 

Chi detiene quindi allo stato attuale il potere di fare cultura in Occidente?

In epoca moderna il potere o la capacità di fare cultura si trovano negli ambienti accademici, nelle università e negli organi di stampa. Ovviamente questi ultimi hanno bisogno di finanziarsi quindi devono ricorrere al potere economico, ma è un errore credere che potere culturale e potere economico coincidono. Chi finanzia la cultura non è detto che sappia anche di cultura. Anche i ricchi devono ricorrere agli intellettuali, ai ricercatori, ai professori per sapere come funziona il mondo. L'idea per cui chi dispone di ingenti capitali sia anche in grado di dare un indirizzo culturale al mondo è uno dei tanti errori del marxismo. Lo stesso marxismo è la dimostrazione che le cose non stanno così. Se i capitalisti dell'Ottocento e del Novecento fossero stati capaci di dare un indirizzo culturale all'Europa, il marxismo non sarebbe mai esistito, visto che prendeva di mira proprio loro, i ricchi capitalisti, auspicando l'esproprio delle loro ricchezze da parte dei proletari. E invece non solo il marxismo è esistito ma per molto tempo è stata l'ideologia dominante nei principali ambienti culturali europei (è ancora oggi dominante, in una forma però più americana).  

Anche nel Rinascimento i ricchi mecenati finanziavano gli artisti affinché facessero pitture e sculture perché loro non erano capaci di farle; se fossero stati in grado di fare una scultura de sé non avrebbero finanziato gli scultori. Quindi oggi come allora potere culturale e potere economico non coincidono. Con la differenza che oggi non è Michelangelo Buonarroti a fare cultura ma le prestigiose università americane e i prestigiosi “think tank” americani. Si dirà: e l'Europa? L'Europa al momento è importatrice netta di cultura dagli USA. Non produce nessuna cultura di sua propria iniziativa. L’Europa non è un soggetto storico, direbbero gli amanti del linguaggio hegeliano. E per quale motivo non è un soggetto storico o, meglio, perché l'Europa non produce cultura? Perché i motori della cultura europea sono spenti: i filosofi si sono assopiti sulle ceneri di Hegel e di Marx, e i cristiani (quei pochi rimasti) si sono chiusi nei bunker a custodire la dottrina (a questi ultimi la domanda è sempre la stessa: a che serve avere una Ferrari chiusa in garage?). La letteratura e le arti figurative in Europa hanno sempre ricevuto linfa dalla religione e dalla filosofia. Se queste ultime spengono i motori, si ferma tutta la cultura in Europa. E in questo momento l'Europa è una nave che naviga a motori spenti trainata dai rimorchiatori americani non sappiamo bene verso dove.

Concludo ancora con alcuni riferimenti storici per dimostrare che potere culturale, potere economico e potere politico non coincidono.

Alcuni studiosi si sono chiesti come sia stato possibile il verificarsi del nazismo in Germania visto che l'Ottocento è stato un secolo di grande fervore culturale per i popoli di lingua tedesca. Ed effettivamente la cultura tedesca è stata l'ultima vera cultura europea. Ma non era tutto oro ciò che in questa cultura luccicava. Ho appena messo in luce gli aspetti pericolosamente violenti del pensiero marxista. Accennerò ora brevemente al romanticismo tedesco, quella grande corrente culturale che si diffuse in Germania a cavallo tra Settecento ed Ottocento; e che si contraddistinse per una forte attrazione per l’oscuro, per il lato ombra dell’uomo, da restare pericolosamente affascinata dal male ignorandone i pericoli. Non è un caso quindi che i tedeschi mostrarono una fascinazione folgorante per Hitler e per il nazismo. Il romanticismo e le teorie di Marx ne avevano culturalmente preparato il terreno. Non confonda al riguardo il fatto che il marxismo sia stato formalmente adottato dai partiti di sinistra. Anche il pensiero di Hitler è marxista nella misura in cui suppone la superiorità storica di un gruppo di esseri umani sugli altri. Al posto di “proletariato” metteteci quello che volete: chiunque pensa che una categoria di esseri umani abbia una soggettività superiore a quella di altri esseri umani e, quindi, debba fare da guida all’evoluzione e al progresso dell’uomo è filosoficamente marxista. Anche chi fosse convinto che questo compito ce l’abbiano i cristiani sarebbe da considerare filosoficamente marxista. Nessun essere umano, in quanto appartenente ad una religione, ad un’etnia o ad un genere sessuale, è portatore di una soggettività superiore a quella degli altri. Ogni essere umano deve fare la fatica di costruire la propria soggettività, e in questo arduo compito nessuno parte in pole position per il fatto di appartenere ad una religione, ad una nazione, ad una classe sociale, ad un’etnia o ad un genere sessuale. 

Tornando al nazismo, Hitler ovviamente ha aggiunto al marxismo il carico delle sue aberrazioni caratteriali e spirituali. Ma non sono sufficienti né le turbe caratteriali di Hitler, né la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, né la precedente crisi economica a spiegare il nazismo. Certamente alcuni eventi storici hanno contribuito all'ascesa di Hitler, ma non bastano da soli a spiegare quella convinta adesione che i tedeschi mostrarono per le aberranti farneticazioni di Hitler. In Italia al contrario il legame tra gli italiani ed il fascismo non fu così forte. Gli italiani erano fascisti solo politicamente, ma non culturalmente. Come sosteneva l’intellettuale Pier Paolo Pasolini, acuto conoscitore dei cambiamenti culturali del nostro Paese, il fascismo aveva provato a cambiare il carattere degli italiani ma non ci era riuscito. 

Pertanto è un errore considerare la cultura e la politica delle mere espressioni del potere economico. E, di conseguenza, per evitare il ripetersi dei drammi del passato non è sufficiente fare memoria degli eventi politici o delle crisi economiche che hanno preceduto e accompagnato gli snodi drammatici della storia, bisogna anche accendere i riflettori sulla cultura. E verificare se, al di là delle apparenze e delle forme, è ancora intatto l’humus culturale che ha permesso il proliferare dei comportamenti aberranti dell’uomo nella storia; comportamenti che, giova ricordare, sono sempre preceduti da dei pensieri; e questi ultimi a loro volta si formano a partire da una filosofia di fondo. 

Nessun essere umano può fare a meno della filosofia per elaborare i propri pensieri, in quanto le idee non nascono mai dal nulla, non sono innate; ma si formano a partire da una concezione, da una visione di fondo, che è sempre filosofica. Anche chi non ha mai aperto un libro di filosofia ha una visione filosofica, fosse anche solo implicita e confusa, perché senza di essa non potrebbe elaborare nessun pensiero che vada oltre la mera risoluzione delle incombenze pratiche della vita. 

domenica 19 ottobre 2025

Le relazioni sane

In questo post avevo parlato delle relazioni che causano ferite psicologiche e che avevo definito “traumatiche”. Adesso parlerò delle relazioni sane, quelle che psicologicamente non ci feriscono ma ci riempiono. Quando parliamo di relazioni dobbiamo sempre ricordarci che la relazione tra due adulti è una freccia a doppia punta: entrambi gli attori partecipano attivamente alla danza, nel bene e nel male. Certo, in alcune relazioni una punta ha più peso dell’altra, pensiamo ad esempio al rapporto tra un datore di lavoro ed il suo dipendente, è chiaro che il datore ha più margini di azione sul suo dipendente di quanto ne abbia quest’ultimo sul primo. Questa asimmetria tuttavia non giustifica quel vittimismo che ci tiene bloccati nell’inazione, nell’adattamento passivo alle situazioni; che ci fa credere che la responsabilità della nostra felicità (o infelicità) sia tutta nelle mani degli altri.  

Non possiamo parlare di relazioni sane se per prima cosa non riconosciamo che oggi siamo immersi in una cultura intrisa di individualismo e di narcisismo fino al midollo; che trasmette costantemente due messaggi distruttivi per le relazioni: 1) gli altri sono di impedimento al tuo successo, alla tua realizzazione; 2) i tuoi desideri sono supremi e per realizzarli sei autorizzato a fare qualsiasi cosa, anche ad usare l’altro, a calpestarlo e a sfruttarlo.

Se ci limitiamo però a riconoscere il narcisismo solo nella cultura o negli altri, alimentiamo quella visione paranoica dell’altro come nemico, che poi è proprio uno dei frutti del narcisismo. Dobbiamo fare lo sforzo di riconoscere il narcisismo dentro di noi, cioè riconoscere che dentro di noi ci sono delle ombre che si oppongono ad un vero incontro con l’altro, a delle vere relazioni. Chi cambia se stesso (in meglio), ha cambiato il mondo. Chi vuole cambiare il mondo e non parte da se stesso è ancora fermo all’adolescenza, indipendentemente da quale età anagrafica abbia. 

Noi psicologi ultimamente assecondiamo un po’ troppo le adolescenze irrisolte della persone. Il primo e più importante messaggio da comunicare ad una persona che si accosta ad un percorso psicologico è il seguente: la psicologia può aiutarti a cambiare solo te stesso; non tua moglie, tuo marito, il tuo datore di lavoro o la società in cui sei inserito. Se tuo marito ti trascura, la psicologia può aiutarti a comprendere il motivo per cui sei bloccata in una relazione trascurante e non certamente a rendere più presente tuo marito. Invece ultimamente come psicologi ci prestiamo a messaggi fuorvianti: ci poniamo addirittura l’esplicito obiettivo di cambiare la società, la cultura, persino la politica. 

Solitamente quando siamo bloccati in una relazione infelice è perché il nostro narcisismo ha fatto un patto con il narcisismo dell’altro. Si tratta di un vero e proprio patto con il diavolo, che bisogna riconoscere e rompere. Non intendo affatto ignorare che spesso ci sono altri vincoli (culturali, sociali ed economici) che rendono difficile uscire da una relazione, ma la psicologia deve occuparsi dei vincoli psicologici; spetta invece ad altre discipline occuparsi di sciogliere i vincoli di altra natura. Evitiamo la tuttologia, l’onnipotenza della psicologia più volte denunciata in questo blog. 

E per sciogliere i vincoli psicologici si può partire solo da se stessi.

Spostiamo quindi lo sguardo dall’esterno all’interno e vediamo cos’è il narcisismo che ognuno di noi si porta dentro.

Il narcisismo è la tendenza a ripiegarci su noi stessi, a negare l’altro e i suoi bisogni; a sfruttarlo per i propri fini, ad usarlo come merce o come oggetto di piacere. E siccome ciò che facciamo agli altri lo facciamo di conseguenza anche a noi stessi: se usiamo gli altri come oggetti, tratteremo anche noi come oggetti e permetteremo agli altri di trattarci come tali. Chi asseconda il proprio narcisismo non vuole appartenere a nessuno, ma così in realtà non appartiene nemmeno a se stesso. 

Abbiamo tutti un narcisismo contro cui dobbiamo combattere. Chi pensa di non avere ombre è perché non ha mai acceso la luce dentro di sé, e pertanto: o vive in quella ingenuità incantata che è la prima preda del male secondo lo psicoanalista J. Hillman; o vive proiettando le ombre all’esterno vedendo il male solo negli altri (quest’ultimo è lo sbocco paranoico del narcisismo). C’è inoltre un terzo atteggiamento, oltre a quello di chi si rifiuta di guardarsi dentro, ed è quello di chi le ombre non le ignora, le vede, ma scende troppo a compromessi con esse; le asseconda, le ricopre di un’aurea di romanticismo. Nell’immaginario artistico dell’Ottocento, le figure dei “dandy”, dei “poeti maledetti”, dei “viveur” appartengono a questa categoria di persone, che giocano in realtà più con la morte che con la vita. Anche la psicoanalisi, in modo particolare quella di Jung, aveva subito il fascino degli aspetti oscuri e ombrosi dell’animo umano.

Freud tuttavia era rimasto più realista, le ombre dell’animo umano le aveva definite “pulsione di morte” squarciando, di conseguenza, qualsiasi velo di romanticismo posto su di esse. Ed effettivamente non hanno nulla di romantico perché distruggono le relazioni, e quindi di riflesso noi stessi che, senza le relazioni, non possiamo né vivere né sopravvivere. 

Il narcisismo si oppone a ciò che è costitutivo di una relazione: il senso di appartenenza. Noi siamo definiti dalle relazioni a cui apparteniamo; non dai successi lavorativi, dai soldi in banca o dai titoli di studio che possediamo. Non è la laurea ad esempio a definire un medico, a dargli un’identità professionale, ma il rapporto che ha con i pazienti. Se un medico non avesse pazienti, non sarebbe medico indipendentemente dai titoli di studio che possiede. Similmente, un sacerdote è definito dal rapporto che ha con i fedeli della sua parrocchia; dall’altro verso, il fedele è definito non da un rapporto astratto con Dio ma dal rapporto che ha con un determinato sacerdote di una determinata parrocchia. E così via. È comprensibile quindi che in un’epoca in cui il narcisismo dilagante ha distrutto ciò che è costitutivo delle relazioni siano molto diffusi i disagi psicologici che hanno come nucleo il senso di vuoto: se non appartengo a nessuno non posso definirmi, non posso nemmeno sapere che scopo ha la mia vita, perché questo scopo si rivela sempre in una relazione con un’altra persona. 


Le relazioni sono sempre relazioni tra due persone, anche quelle tra amici. La coppia è sempre la base di una relazione. Per questo è opportuno che i rapporti di amicizia siano improntati ad una sana prudenza. Oggi si divorzia molto facilmente perché anche molto facilmente si tradisce, e si tradisce facilmente perché si ignora che le relazioni sono sempre relazioni di coppia. Anche quelle tra colleghi nei luoghi di lavoro, che oggi vedono fortunatamente la presenza di donne, oltre che di uomini. Il narcisismo esercita una forte attrazione sulla sessualità ed è alto il rischio che quest’ultima diventi il suo principale alleato, se non siamo vigilanti. Inoltre, la nostra cultura non esalta solo il narcisismo ma anche la sessualità svincolata dal primato relazionale. È questa saldatura tra narcisismo e sessualità incoraggiata a piè sospinto che rende la nostra civiltà decadente, perché si alimenta di ciò che la distrugge. Quindi è necessario una vigilanza non solo sul narcisismo ma anche sulla sessualità. 

Abbiamo detto che ciò che ci definisce sul piano psicologico è il sapere di appartenere a qualcuno. Per appartenere a qualcuno bisogna in primis accettare di essere in uno stato di dipendenza dall’altro; accettare che l’altra persona sia per me come l’ossigeno che respiro. I polmoni non si ribellano all’ossigeno perché vorrebbero essere indipendenti dall’aria che respiriamo. Ribadisco: chi segue al riguardo i deliranti messaggi di autosufficienza di una società moribonda si condanna al suicidio. Tuttavia, la dipendenza deve essere accettata per essere poi (parzialmente) superata. Non tramite l’autosufficienza. Ma diventando anche noi ossigeno per gli altri. Se ci limitiamo solo a prendere l’ossigeno rimaniamo in quella dipendenza relazionale che è espressione di una immaturità psicologica. Dobbiamo anche dare amore agli altri, e non solo prenderlo. E l’amore fiorisce quando iniziamo a difenderci dal canto seducente del narcisismo tappandoci le orecchie o, meglio ancora, vincolandoci a qualcosa di solido come fecero Ulisse e i suoi compagni di viaggio. 

In conclusione, alla domanda: Chi sei? Possiamo rispondere con il nome delle persone alle quali apparteniamo. Se non apparteniamo a nessuno, risponderemo come Ulisse a Polifemo: Nessuno.

venerdì 17 ottobre 2025

Le tre dimensioni dell’uomo

Tre sono le principali componenti caratterizzano la natura dell’uomo: un corpo fisico, che abbiamo in comune con tutti gli animali; una componente psicologica, che condividiamo con alcuni animali (anche altri animali hanno una psicologia sebbene più semplice di quella umana); ed una componente spirituale che appartiene solo all’uomo. Ognuna di queste tre dimensioni è ordinata ad un fine: ha un proprio scopo da raggiungere. 

Sul piano fisico il fine da raggiungere è la conservazione della vita, del vivente biologico. Qui non è necessario soffermarsi, è abbastanza chiaro questo fine: tutta la medicina è al servizio di questo scopo. Approfondiamo invece le altre due componenti, quella psicologica e quella spirituale.

Sul piano psicologico l’uomo tende alla relazionalità, questo è il piano in cui la natura sociale dell’uomo è più evidente. Il fine principale dell’uomo nella dimensione psicologica è quello di preservare la vita di relazione. Le relazioni svolgono per la psiche la stessa funzione che l'aria e l’ossigeno svolgono per il corpo: sono vitali per un adeguato funzionamento psicologico. L'uomo per mantenersi vivo e sano psicologicamente ha bisogno di una rete di relazioni. Non è sufficiente una sola relazione, abbiamo bisogno di più relazioni: di coppia, amicali, lavorative, ecc. Ovviamente come per il nostro organismo l’aria è salutare solo se è pulita, così le relazioni sono salutari solo se “pulite”, e non “tossiche” come si usa dire oggi. Ho affrontato in questo post il tema delle relazioni “tossiche”, che ho preferito definire “traumatiche”, perché la tossicità è un attributo più appropriato alla vita organica; il trauma invece è più appropriato alla vita psicologica: è necessario infatti una lunga riabilitazione per riprenderci da relazioni che ci hanno traumatizzato, soprattutto quando queste relazioni ci hanno impedito di coltivare altri e più sani rapporti. Quindi non dobbiamo ignorare i campanelli di allarme che ci segnalano che qualcosa non sta andando bene in una relazione. È necessario ogni tanto fare un "check-up relazionale", così come facciamo i controlli periodici per la salute del nostro corpo. È necessario ogni tanto porsi alcune domande soprattutto per le relazioni più strette come quelle di coppia: La relazione è ancora viva? Stiamo ancora facendo un cammino insieme? Ci lega una tensione verso uno scopo di vita comune e significativo? O ci siamo semplicemente ripiegati nella banalità dell'abitudine? O, peggio, a tenerci uniti non è una tensione positiva, non è nemmeno l'abitudine ma l'odio o il disprezzo reciproco? Potrebbe sembrare un po' forte quest'ultima domanda ma purtroppo a tenere uniti gli esseri umani non è solo l'amore, ma anche l'odio; anzi, l'odio spesso è un collante superiore all'amore, perché l'amore lascia libero l'amato, l'odio non lascia libero l'odiato. 

Arriviamo alla terza componente. L’uomo tende alla verità: verità scientifiche, verità storiche, verità esistenziali, verità di fede, ecc. La verità quindi è il fine della vita spirituale. I disordini spirituali si vedono dal rapporto che abbiamo con la verità. L’uomo è l’unico animale che ha una dimensione spirituale perché è l’unico animale che è in grado di conoscere la verità, nei limiti delle nostre facoltà conoscitive. Alla verità ci si arriva con l’intelletto e con la fede. La strada dell'intelletto è più lunga e faticosa e, non di rado, costellata di insuccessi: dobbiamo spesso accontentarci di comprendere poco o solo parzialmente. La strada della fede invece è più immediata, se per fede intendiamo l'atto di accogliere come vero ciò che proviene da una fonte che consideriamo autorevole, senza fare la fatica di ragionarci su o di sperimentarlo personalmente. Quali siano le fonti che ognuno di noi considera autorevoli, come esseri umani dobbiamo tutti fare la fatica di usare l'intelletto, perché l’uomo che rinuncia ad usare la ragione è un uomo la cui dimensione spirituale è debole, e quindi sarà immaturo anche nella fede. È un uomo che sarà disposto a credere a qualsiasi cosa perché i vuoti lasciati dalla ragione saranno in realtà dei crateri che dovranno essere colmati con (molto) altro. È molto difficile tollerare il nonsenso, se rinunciamo ad usare la ragione dobbiamo ricorrere ad altro per dare senso e significato al mondo. Saremo pertanto o creduloni o dogmatici. I primi credono a qualsiasi cosa gli passi sottomano; i secondi sono un po' più pericolosi perché riempiono i vuoti lasciati dalla ragione con delle convinzioni granitiche, che poi usano contro la stessa verità, avendo rinunciato ad esplorarla con la ragione. A quest’ultima categoria di persone si riferisce Gesù nel Vangelo quando dice: “Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza”, cioè avete usato la Legge contro la conoscenza, contro la verità. "Dottore della Legge" è chiunque ricopra ruoli di responsabilità, chiunque eserciti un’autorità su altre persone. E siccome l’autorità si vede dalla Legge, cioè dal potere sanzionatorio che si ha sugli altri, chi usa questo potere per impedire la conoscenza commette un peccato grave agli occhi di Gesù. Possiamo quindi rigettare la sbrigativa interpretazione secondo la quale il cristianesimo impedirebbe la conoscenza. Può darsi che in passato il cristianesimo sia stato usato per impedire all’uomo di usare la ragione, oggi però non è così. Per individuare quali sono oggi i dogmi che vengono usati contro la conoscenza è sufficiente pensare a quei temi sui quali non si può dissentire pubblicamente senza rischiare sanzioni. Non sono certamente temi religiosi. Si può dire in pubblico qualsiasi cosa contro la religione cristiana: non si rischia oggi nessuna sanzione. Su altre tematiche invece la censura è viva e più agguerrita che mai.

Tra queste tre dimensioni c'è un rapporto gerarchico: la ricerca della verità è un fine spirituale e, in quanto tale, è superiore alla vita di relazione che è il fine psicologico, quest'ultimo a sua volta è superiore alla mera conservazione della vita biologica. Quando un fine di rango superiore ed uno di rango inferiore confliggono deve essere data la precedenza a quello di rango superiore; lo scopo inferiore deve essere sacrificato però solo limitatamente al raggiungimento dello scopo superiore (Sofia Vanni Rovighi). Se lo scopo superiore fagocita quello inferiore c'è qualcosa che non va. Ad esempio, se per stare in una relazione (coniugale, lavorativa, amicale, ecc.) devo maltrattare il mio corpo è probabile che ci sia un disordine psicologico o psicosociale che si riflette sul corpo. Similmente, se scaglio la verità, che appartiene al più alto rango spirituale, come una pietra addosso agli altri distruggendo così le relazioni, è probabile che io abbia un problema sia con la verità che con gli altri. Dall’altro verso, le relazioni non devono soffocare la verità, poiché non ci può essere crescita, né personale né di relazione, senza uno scomodo confronto con la verità. Allo stesso modo, gli istinti del corpo non devono prevalere sulle relazioni: la sessualità, ad esempio, non deve essere praticata con il fine esclusivo del piacere sessuale che si chiude all'incontro con l'altra persona; e nemmeno praticata mettendo l’altra persona al secondo posto rispetto al piacere fisico, ma deve essere inserita sempre nel più alto fine relazionale dell'uomo e della donna.  



mercoledì 15 ottobre 2025

Scienza e Profezia

Nei tre precedenti post abbiamo visto che nella famosa massima greca Conosci te stesso sono presenti in filigrana diversi elementi: dopo aver parlato di dio, interiorità, comunità, ora dobbiamo affrontare gli ultimi due elementi: scienza e profezia. Ancora più che nei precedenti post, apparirà ora molto ardito l'accostamento: che legame c'è tra scienza e profezia, cioè tra ragione e fede? Per l'uomo occidentale che è abituato da secoli a vivere nella più totale frammentazione, interiore ed esteriore, non sembra esserci alcun collegamento. Non era così per gli antichi greci. E proviamo ora a capirne il motivo.  

L’uomo non è solo un animale sociale o politico, è anche un animale intellettuale.

L'intelletto è una delle due facoltà spirituali dell’uomo (l'altra è la fede). Spirituale è tutto ciò che permette all’uomo di rapportarsi con la verità, di contemplarla e di uniformarsi ad essa.

Intelletto e fede hanno in comune lo spirito profetico. La scienza è profetica perché è profetico tutto ciò che in qualche modo anticipa il futuro. 

È necessario svuotare la parola profezia di eccessivo misticismo. L’attività principale con cui l’uomo profetizza è l’attività scientifica (e l’attività razionale in generale). Con la scienza cerchiamo di prevedere il futuro (nei limiti dell’intelletto umano) e quindi di prevenire eventuali pericoli futuri. Se il meteo mi dice che oggi pioverà prenderò l’ombrello prima di uscire di casa; se la medicina mi dice che l'amianto causa il mesotelioma (un tumore aggressivo della pleura), eviterò di espormi a questa sostanza; e così via. La scienza mette in guardia l’uomo dai pericoli futuri. In questa accezione scienza e profezia sono praticamente sinonimi. Per questo gli antichi greci li hanno posti sotto lo stesso dio (Apollo). La scienza è l’attività profetica ordinaria dell’uomo. Poi c’è la profezia straordinaria, si tratta di verità extrateoretiche che non possono essere dimostrate con la ragione e che appartengono, pertanto, al campo della fede. Gli antichi greci chiamavano mantica questo genere di attività profetica. In epoca moderna e cristiana, le profezie di Fatima ad esempio appartengono a questo genere di profezie. In ogni caso, che uno creda o non creda, queste profezie sono l’eccezione, o almeno dovrebbero esserlo; la norma è la scienza, la ragione. Gli antichi greci non passavano le giornate a consultare gli oracoli, ma a lavorare, a studiare, a cercare di comprendere con la ragione la realtà (perlomeno nel loro periodo più florido). Quindi condivido a pieno lo scetticismo che Papa Francesco aveva espresso nei confronti di Medjugorje e dei presunti messaggi che la Madonna darebbe al mondo con cadenza periodica per il tramite di alcuni veggenti. Queste profezie rischiano di incoraggiare i fedeli a rimanere nell'ignoranza: perché infatti devo fare la fatica di studiare, di usare l'intelletto per capire in quale direzione sta andando l’uomo oggi se è sufficiente aspettare i (presunti) messaggi della Madonna? Chi ha fede non è esonerato dall'uso della ragione, dallo studio della storia, delle scienze, delle lingue, della matematica, della filosofia, della letteratura, ecc: credenti sì, ma creduloni no! Chi ha fede è un essere umano come tutti e, quindi, deve contribuire in base alle proprie possibilità al progresso culturale e scientifico dell'umanità e non limitarsi semplicemente a vivere del lavoro intellettuale altrui. Tutti gli esseri umani hanno un intelletto, non solo alcuni. L'evangelica povertà di spirito non è sinonimo di ignoranza intellettuale. Questa frattura tra fede e ragione, alla quale purtroppo anche i cristiani hanno contribuito, è parte della decadenza civile dell'Occidente. Una tale frattura non è la normalità nelle civiltà sane. Papa Benedetto XVI aveva provato a ricomporla ma il suo tentativo purtroppo è caduto nel vuoto, perché molti sono impegnati a far entrare la politica nella fede (per fede intendo la totale disponibilità a servire la Verità), anziché fare il contrario, e pertanto di Benedetto XVI e di Francesco sanno solo dire che uno era conservatore e l’altro progressista. Per non parlare delle teorie complottiste sui due Papi, a riprova che se ci sono delle difficoltà nella fede ci sono anche delle difficoltà nell’uso della ragione, e viceversa. Il complottismo in generale è segno di un arretramento della ragione a favore della componente emotiva, è un segno di paranoia, della quale è responsabile non solo il popolo ma anche la cosiddetta élite, la quale passa più tempo a disprezzare la base che ad elevarla culturalmente.

Ma torniamo al tema del post.

Nell’atto di uniformarsi alla verità l’uomo pratica la giustizia, essendo la giustizia l'attributo più importante della verità. È contemplativo tutto ciò che permette all’uomo di conoscere la verità con l’unico fine di conformarsi ad essa. L’uomo può anche usare la verità, ad esempio le conoscenze scientifiche, per migliorare le proprie condizioni di vita o per accrescere il proprio benessere. Questo è un uso utilitaristico della verità, pienamente legittimo, purché non prenda il posto della dimensione contemplativa, altrimenti l’uomo si riduce solamente a funzionare come una macchina. Il motivo principale per cui oggi temiamo di essere sostituiti dall'intelligenza artificiale è perché abbiamo perso la dimensione contemplativa: se l'uomo deve solo funzionare allora una macchina funzionerà sempre meglio di un uomo. E quindi il timore di essere sostituiti dalle macchine è pienamente legittimo. Ma l'uomo non deve solo funzionare, deve contemplare la verità e diventare come essa, cioè diventare giusto. Di un uomo si può dire che è giusto; di una macchina non si può dire che è giusta, si può dire solo che è funzionante o non funzionante. 

Ci sono situazioni in cui la dimensione contemplativa e la dimensione utilitaristica entrano in conflitto, cioè situazioni in cui la verità è incompatibile con ciò che è necessario per preservare la propria vita. Se i giudici Falcone e Borsellino avessero dato la priorità alla dimensione utilitaristica dell'esistenza non sarebbero morti ammazzati ma non sarebbero nemmeno stati giudici e, soprattutto, uomini giusti.

Ma che cos'è la verità?

Ponzio Pilato dà voce ad una domanda che ogni essere umano si porta nel cuore. "Che cos'è la verità?", chiede Pilato a Gesù nei momenti drammatici che precedono la sua crocifissione... Gesù tace... l'uomo e la Verità si guardano negli occhi... non c'è bisogno di parlare... Pilato è preoccupato che la sommossa popolare che si è scatenata contro Gesù possa fargli perdere la poltrona di governatore e, quindi, il potere, le comodità, il benessere. Sa benissimo che Gesù è innocente, ma è spaventato da quella massa di Giudei che urla "Crocifiggilo"; non comprende quella manifestazione di aggressività contro un innocente. Né, a dir il vero, fa molti sforzi per comprenderla, per interrogarsi sul perché la folla voglia uccidere “quel giusto” - come in precedenza aveva definito Gesù la moglie di Pilato mettendolo in guardia dal seguire la folla in quel processo -. Prova timidamente a convincere i Giudei a lasciarlo libero dopo averlo fatto flagellare, illudendosi che la folla si sarebbe accontentata della flagellazione, ma non c'è verso: "Crocifiggilo!", continuano ad urlare. A questo punto Pilato cede definitivamente: sceglie la politica (cioè il consenso popolare) e sacrifica la Verità. Aveva provato fino all'ultimo a tenerli insieme; a dir il vero, già con la decisione della flagellazione aveva sacrificato la Verità perché Gesù era innocente e quindi non doveva nemmeno essere flagellato - grande monito per chi si illude di tenere il piede in due scarpe -, ma adesso compie il ripudio definitivo della Verità: fa condannare a morte Gesù ed entra nella storia della salvezza dalla porta sbagliata: una grande moltitudine di cristiani nei secoli e millenni a venire professerà il proprio credo dicendo: “patì sotto Ponzio Pilato… patì sotto Ponzio Pilato… patì sotto Ponzio Pilato…”

Da fonti storiche sappiamo che Pilato verrà destituito nel 36 d.C.: ciò che temeva al momento della condanna di Gesù si è verificato lo stesso, con l'aggravante del disonore. Potevate scegliere tra il disonore e la guerra, avete scelto il disonore e avrete la guerra. Tutti perderemo le poltrone sulle quali siamo seduti: ciò che conta non è essere destituiti - lo saremo tutti -, ciò che conta è se al momento della nostra destituzione avremo la Verità dalla nostra parte o l'avremo contro di noi.

Abbiamo quindi due esempi opposti: da un lato Pilato, che ha preferito ciò che è comodo a ciò che è vero; e dall’altro i giudici Falcone e Borsellino che hanno fatto l’esatto contrario. Si ricorda che Falcone e Borsellino sono stati santificati (laicamente, s'intende) solo dopo la morte; ma in vita avevano avuto anche loro la "folla" contro, erano stati osteggiati da colleghi, da giornalisti e forse anche da politici.

Da questi due esempi opposti possiamo dire che la verità è oggettiva, è sempre oggettiva. Se la verità fosse soggettiva coinciderebbe con ciò che è utile, con ciò che conviene a me. Ma abbiamo appena visto che non è così. E la verità non è soggettiva anche in un altro senso: l'uomo non la possiede mai; questo vale sia in ambito scientifico, nessuno studioso esaurirà mai la conoscenza di una materia, di un campo del sapere umano; sia nelle religioni: nessun popolo potrà mai dire "siccome noi possediamo questa dottrina allora possediamo la verità". Anzi, il verbo possedere è nemico della verità: la verità si può contemplarla, non possederla. Gesù è molto duro nel Vangelo con i farisei, gli scribi ed i dottori della legge, cioè con quelli che pensano di poter controllare la verità - e, quindi, la vita propria e altrui - perché hanno acquisito la titolarità di una cattedra, la padronanza di qualcosa o perché godono della stima del pubblico. Per smontare tutte queste apparenti sicurezze, Gesù usa nel Vangelo parole molto sferzanti: “I pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel regno di Dio”. Per ricordarci che gli applausi del pubblico non conteranno nulla quando calerà il sipario della nostra vita (i pubblicani e le prostitute rappresentano quelle categorie di esseri umani che godono di scarsissima stima sociale). 

Nelle scienze si usano metodi rigorosi non per controllare la verità ma per controllare i nostri enunciati, affinché non siano solo opinioni soggettive ma abbiano una corrispondenza con la verità, che in ogni caso non conosceremo mai perfettamente e definitivamente. 

C’è un altro nemico della verità, oltre al possesso: la folla. Per evitare fraintendimenti di tipo elitario, diciamo subito che la folla non va intesa in senso freudiano come massa di esseri umani che si comportano in modo impulsivo ed irrazionale. Come è noto, Freud aveva una visione fortemente negativa delle masse, come anche dei capi che le manipolano. Ma disprezzare la massa equivale a disprezzare l’uomo, in quanto la dimensione sociale è costitutiva della natura umana. È vero che nel periodo storico in cui è vissuto Freud l’uomo ha dato il peggio di sé nella dimensione sociale e politica, ma bisogna fare attenzione a non generalizzare. A non cadere nel solito errore di confondere la degenerazione di un fenomeno con il suo stato essenziale. Noi viviamo in una civiltà che è in uno stadio avanzato di decadimento, pertanto consideriamo coessenziale ciò che è solo parte della parabola discendente di una civiltà. Che una civiltà nasca e muoia è assolutamente normale, è nell’ordine dei processi storici; dobbiamo però prestare particolare attenzione ai fenomeni di degenerazione morale che nelle civiltà decadenti sono pervasivi e che intaccano il rapporto che ognuno di noi ha con la verità. Ognuno è responsabile delle scelte che compie di fronte alla verità indipendentemente dal periodo storico in cui si trova. Ognuno deve compiere una scelta: o ciò che è vero o ciò che offre il mondo. Il mondo offre il consenso, l'approvazione degli uomini, l'illusione di avere la propria vita sotto controllo: il frutto di tutto questo è l'ipocrisia. Quindi tornando alla folla, non è la folla in quanto tale ad essere nemica della verità, ma il desiderio dell’uomo di volerne l’approvazione ed il consenso. È la brama di consenso di Pilato che lo porta ad allearsi con la folla e, di conseguenza, a rendersi nemico della verità. 

Quante volte anche noi sacrifichiamo la verità per il desiderio eccessivo di essere approvati? Quante energie spendiamo per vivere non un’esistenza vera e libera ma per rimanere succubi e schiavi dell’opinione che gli altri hanno di noi? Quanta esistenza abbiamo sacrificato per inseguire la chimera di avere la nostra vita (e quella degli altri) sotto controllo? Quante sofferenze abbiamo cagionato a noi stessi e agli altri per la brama di consenso e per la smania di controllo?


lunedì 13 ottobre 2025

La coesione sociale

Proseguiamo sulla strada intrapresa negli ultimi post, quella di approfondire il significato del Conosci te stesso. Abbiamo visto che in questa massima, secondo gli antichi greci, è racchiuso uno stretto collegamento tra aspetti della realtà che a noi oggi appaiono molto distanti, quasi inconciliabili: dio, interiorità, comunità, scienza e profezia. Negli ultimi due post ho messo in collegamento il concetto di dio con quello di interiorità. Ovviamente per parlare di dio ho fatto riferimento al cristianesimo, la religione che da oltre duemila anni accompagna le tribolate vicende europee. Oggi la dimensione spirituale dell’uomo non viene coltivata nel tempio di Apollo e nemmeno in un tempio buddista, almeno non da noi occidentali (ho spiegato in questo post che le pratiche di meditazione orientale - mindfulness, yoga, ecc. - nel modo in cui le usiamo in Occidente non sono pratiche spirituali). In Occidente abbiamo le chiese cristiane, in Italia in modo particolare abbiamo le chiese cattoliche. Qui si fa spiritualità da noi. Chi nega questa evidenza, nega la realtà. Chi nega la realtà nega il punto da cui partire per fare filosofia, teologia, scienza o semplicemente per fare qualsiasi ragionamento od argomentazione. La stravaganza purtroppo è uno dei marker culturali del nostro tempo: la ricerca dell’alternativo, del diverso, del lontano portata al parossismo e all’esasperazione, al punto da negare ciò che abbiamo davanti agli occhi. Chi oggi vuole parlare di dio, di spiritualità ignorando il cristianesimo si colloca fuori dal tempo, fuori dalla storia, in una nicchia naïf dalla quale non solo non contribuisce al progresso culturale dell’Occidente, la cui religione principale è quella cristiana; ma alimenta anche una scissione sociale che poi aggrava quella interiore (della scissione interiore ne ho parlato qui). È necessario tornare a ricomporre tutto ciò che è scisso e frammentato, sia a livello sociale sia a livello interiore. 

Una delle scissioni fondamentali che caratterizza il nostro tempo è quella tra mondo interiore e mondo esteriore.

Noi abbiamo eccessivamente separato la vita privata dalla vita pubblica: ci preoccupiamo della tutela della privacy oltre ogni ragionevolezza e buonsenso, al punto da percepire la dimensione pubblica come nemica di quella privata: ci preoccupiamo continuamente di essere scrutati, tracciati, profilati. Non ci accorgiamo che questa paranoia è sintomo di un problema, di una scissione interna che è alimentata dagli sforzi che facciamo per costruire un'immagine pubblica che non corrisponde all'immagine che abbiamo di noi quando siamo nell'intimo delle nostre stanze. Come inevitabile conseguenza di questa scissione dobbiamo poi porre in essere una serie di difese, di strumenti o di tutele affinché gli altri non vedano chi siamo veramente. E forse non lo sappiamo nemmeno noi chi siamo davvero. Siamo uno, nessuno e centomila direbbe Pirandello. Se vivo autenticamente la mia vita non c'è scissione, ma coerenza tra come mi comporto quando sono solo e come mi comporto quando sono davanti agli altri. Noi invece oscilliamo tra l'esibizionismo con cui mostriamo attraverso i social la nostra (falsa) vita privata e la paura paranoica che gli altri sappiano troppo di noi. Quindi chi siamo veramente? Qual è la nostra vera identità? Quella pubblica o quella privata? O nessuna delle due? 

Per ricomporre la frattura interiore è necessario recuperare una coerenza tra come ci comportiamo privatamente e come ci comportiamo pubblicamente, perché tutto ciò che facciamo, ogni comportamento pubblico o privato che mettiamo in atto, incide sulla nostra interiorità, plasma in un certo senso il nostro mondo interiore. Se ci comportiamo in modo contraddittorio, anche il nostro mondo interiore sarà contraddittorio; se abbiamo una coerenza di comportamenti anche la nostra interiorità avrà una coerenza. Quindi la prima cosa da fare per ritrovare un’unificazione interiore non è fare tante analisi interiori ma sforzarsi di essere coerenti in ogni frangente della nostra vita, anche quando costa fatica e sarebbe più conveniente fingere di essere qualcun altro. 

Un altro aspetto rilevante che riguarda l'uomo nella vita sociale e nel rapporto con la comunità di appartenenza è la dimensione politica. L’uomo è uno zoon politikon, un animale politico, lo definiva Aristotele. Purtroppo però l’uomo occidentale si è trasformato negli anni da animale politico ad animale in-perenne-conflitto politico, non è più capace di distinguere una vera rivoluzione dalla sterile ribellione adolescenziale. Vive in perenne ribellione contro le autorità costituite, in un’adolescenza che non vede mai una risoluzione. Adotta la protesta adolescenziale contro tutto ciò che non gli piace; e non mi riferisco solo alle classiche proteste di piazza ma anche a quell’atteggiamento di perenne lamentela che ormai inquina tutti gli ambiti della nostra vita. Non sa fare più la fatica di accettare ciò che non gli piace, non in virtù di una passiva sottomissione ma di un’attiva assunzione di responsabilità nei confronti della comunità a cui appartiene, nella quale non sa più che ruolo svolgere essendo tutto ripiegato sul proprio Io. Vive il rapporto con la comunità di appartenenza a senso unico: la società deve sempre dargli ciò che vuole, deve corrispondere a tutti i suoi ideali (o presunti tali). Non distoglie più lo sguardo dal suo ombelico; dai suoi desideri, dai suoi bisogni, dalle sue idee, e se il mondo esterno non si allinea a tutto ciò inizia a puntare i piedi. Non conosce più la fatica della mediazione, del compromesso; tutte attività tipicamente politiche che richiedono pazienza, prudenza, strategia e non l’avventatezza impulsiva, attività che non riguardano solo la politica di professione ma tutti gli ambiti della nostra vita, in particolare la vita sociale, compresa anche la vita di coppia e familiare. 

Purtroppo a partire dall’illuminismo si sono succeduti studiosi e filosofi che hanno collocato queste fratture sociali in seno ad un presunto stato di natura dell’uomo. Quasi che le lotte intestine siano lo stato naturale dell’uomo nella società. In maniera simile gli psicoanalisti hanno teorizzato una frattura sul piano psicologico. L’unica vera frattura che caratterizza l’uomo è quella tra l’Io e l’Essere, l’uomo è l’unico animale la cui essenza può separarsi dall’Essere, e può spingere tale separazione fino al punto di renderla irreversibile. Questa è la frattura più seria e più drammatica da cui derivano tutte le altre fratture, che però non sono insite in nessuno stato di natura dell’uomo.

La storia stessa smentisce questi presunti stati di natura.

Se ritorniamo al mondo antico, spostandoci da Atene a Roma, ci accorgeremo che le fortune dei Romani furono basate sulla coesione sociale tra il re ed il popolo nella Roma monarchica e tra patrizi e plebei nella Roma repubblicana; chi ricopriva le cariche pubbliche lo faceva con coscienza e senso di responsabilità, i più ricchi servivano nell’esercito per più anni e morivano in guerra insieme con i meno ricchi, i plebei dal loro canto riconoscevano le maggiori capacità dei patrizi nella guida dello Stato. La vita sociale romana era saldamente ancorata all’osservanza della legge, al rispetto dell’autorità, alla fermezza di fronte alla morte. Inoltre, i primi re erano più dei sacerdoti che dei politici, si occupavano prevalentemente di funzioni religiose; di poteri politici ne avevano pochi, erano dei semplici delegati del popolo. Quando questa coesione sociale si è rotta è iniziata la lunga parabola discendente di Roma. E anche noi oggi in Europa ci troviamo in una simile parabola discendente, iniziata almeno tre secoli fa - le traiettorie delle civiltà hanno tempi molto più lunghi di quelle delle singole vite umane -. È chiaro che i modelli politici dell’antica Roma non sono oggi proponibili data la complessità antropologica e sociale che l'uomo ha raggiunto. Ma è sufficiente questo esempio storico per smentire tutte le dissertazioni sul presunto stato di natura dell’homo homini lupus, o della lotta di classe come forza dialettica che muoverebbe la storia. Al contrario, è necessario ritrovare una unificazione delle varie dimensioni dell’uomo, pur nel rispetto dei metodi e degli strumenti tipici di ogni dimensione umana. E, soprattutto, è necessario ritrovare una gerarchia dei valori, quella gerarchia che l'uomo europeo ha stravolto totalmente, facendo prevalere l'animalità sulla spiritualità (vedasi Nietzsche). Al primo posto devono esserci i valori spirituali (giustizia); al secondo posto quelli sociali e politici (pace sociale, stabilità politica); e al terzo gradino i valori riguardanti il corpo (l'animalità) come, la salute e il vigore fisico, il benessere e i piaceri fisici. Non si intende dire che valori di rango inferiore come il vigore fisico o il piacere sessuale debbano essere combattuti, ma non devono essere considerati valori supremi (Sofia Vanni Rovighi). In assenza di questa gerarchia l’Assoluto può diventare lo Stato, con la conseguenza che i capi delle nazioni pretendono il totale asservimento dei cittadini agli interessi dello Stato incarnato nella figura del capo politico; può diventare la salute fisica, con la pretesa del totale asservimento della comunità sociale e politica alle disposizioni impartite da medici e virologi, come avvenuto nel periodo della pandemia di covid-19. In relazione a quest'ultimo punto, è stato però colpevole anche il comportamento di quegli italiani che hanno deciso di non vaccinarsi perché hanno ritenuto che i rischi del vaccino fossero per loro superiori ai benefici. Ammesso che si sia trattato di una valutazione corretta, erano comunque tenuti ad obbedire alle autorità politiche e sanitarie perché la pace sociale è un valore superiore alla propria vita - è inutile pretendere la pace nel mondo se poi fomentiamo le lotte intestine a casa nostra -; la disobbedienza rompe la coesione sociale, mina la fiducia tra il popolo ed i governanti, tra i cittadini e le autorità, pertanto, è accettabile solo quando è finalizzata a preservare i più alti valori etici e morali e non semplicemente per preservare la propria vita, altrimenti nessun soldato si sacrificherebbe mai per la difesa della propria patria. Ovviamente ciò sarà possibile solo se ammetto una gerarchia di valori ad es., la pace è un valore superiore alla mia vita; la giustizia è un valore superiore alla pace (una pace ingiusta non è un valore). Anche Socrate agì secondo una gerarchia di valori quando decise di accettare la condanna a morte pur ritenendosi innocente. Socrate decise di accettare la sentenza del tribunale di Atene, nonostante i suoi amici lo invitassero a fuggire dalla città, perché considerava la polis più importante della sua stessa vita ed era inoltre convinto che un Dio giusto avrebbe ricompensato il suo comportamento.   

Purtroppo ancora oggi c'è chi spiega la crisi economica europea con il conflitto di classe: la nostra crisi è molto più profonda ed è legata all’incapacità di conformare la nostra vita a valori diversi da quelli economici - la stessa Europa è tenuta insieme da una moneta -; di conseguenza, l’uomo non trovando nella vita sociale valori più alti di quelli economici è incoraggiato a correre solo per l’appropriazione e l’accumulazione di beni e risorse materiali; corsa in cui paga le spese inevitabilmente chi è più svantaggiato. Ma questo non è un presunto stato di natura della società. Questo è l’impietosa fotografia di una società decadente. I filosofi che “naturalizzano” tale società rifacendosi all’homo homini lupus o alla lotta di classe come ineluttabili leggi sociali offrono la loro filosofia a tale decadenza, aggravandola perché ne forniscono una giustificazione razionale e, quindi, morale. 







sabato 11 ottobre 2025

Ecce homo

 Nel post precedente ho provato ad analizzare la famosa massima greca “Conosci te stesso”. Ho messo in luce che il conoscere se stessi nell’accezione greca implica in primis conoscere dio. Pertanto, se per conoscere noi stessi dobbiamo partire da dio, è necessario che ci soffermiamo un po’ di più su questo concetto.

In questo post parlerò di Dio facendo esplicito riferimento al cristianesimo, sono consapevole che il cristianesimo oggi in ambito scientifico gode di scarsissima stima, a causa anche di molti cristiani (non tutti) che da decenni, se non addirittura da secoli, hanno deciso di ritirarsi dalla scena del mondo e di disinteressarsi quindi anche del progresso scientifico - nel senso che non partecipano attivamente alla crescita culturale dell’Europa, non offrono contributi al progresso scientifico, rinnegando in questo modo la stessa fede cristiana, perché si comportano come se il Dio cristiano fosse solo Scrittura e Comandamenti e non anche Spirito. Quindi consapevole di tutti i limiti, le colpe e le responsabilità dei cristiani (già denunciati in questo post), non posso però ignorare che da oltre duemila anni il cristianesimo è una realtà e una verità storica. La Chiesa Cattolica è l’istituzione più longeva della storia dell’uomo: qualcosa vorrà pur dire questo evidente dato storico. Se il cristianesimo fosse solo oppio per i popoli, come si spiega che da oltre duemila anni rimane in piedi nonostante tutte le trasformazioni, le rivoluzioni, i rovesci sociali e politici che hanno caratterizzato la tormentata storia del nostro continente? Se c’è stato dell’oppio in questi secoli è molto più probabile che sia stato coltivato al di fuori della Chiesa Cattolica, magari anche da quegli stessi cristiani che, come già detto, nei fatti hanno rinnegato la loro stessa fede. Ad onor del vero bisogna dire però che non tutti l’hanno rinnegata, la storia è piena di santi che hanno contribuito alla civilizzazione dell’Europa e del mondo. Certo, i santi sono sempre stati la minoranza dei cristiani, ma è sufficiente questa minoranza per attestare la bontà della fede cattolica. È sufficiente una sola madre Teresa di Calcutta per dimostrare che la carità cristiana è vera e la può mettere in pratica chiunque voglia farlo seriamente. E questa carità non è l’iniziativa di un singolo, è l’iniziativa di tanti figli e figlie della Chiesa Cattolica che dalla Chiesa hanno ricevuto non l’oppio ma il vero spirito di carità. Ricordiamo a tal proposito anche le tante associazioni cattoliche che in giro per il mondo offrono servizi, aiuti, sostegno per i più poveri e bisognosi; e lo fanno senza cercare il plauso ed il consenso delle folle, le quali solitamente preferiscono andare dietro ai vari Barabba che gridano e urlano nelle piazze.

Fatta questa necessaria premessa sul cristianesimo, adesso mettiamo Dio in rapporto con la nostra interiorità.

Secondo Sant’Agostino ogni pensiero dell’uomo si forma a partire da un’immagine, non esiste un pensiero senza un’immagine che lo accompagni e lo preceda; ad esempio, per avere un’idea di cosa sia un tavolo devo prima averlo visto, se non ho mai visto un tavolo sarà anche difficile concepirlo, farmene un’idea. Il che non significa che pensiero e immagine coincidano, il pensiero è un’attività spirituale dell’uomo che si sviluppa a partire da un’immagine: quest’ultima è frutto dell’attività dei sensi, il pensiero invece è frutto dell’attività dello spirito.

Se per elaborare un qualsivoglia concetto devo averne prima un’immagine, ci troviamo di fronte al primo grande ostacolo riguardante il concetto di Dio: Dio nessuno l’ha mai visto. Come faccio a pensare e a parlare di Dio se nessuno lo ha mai visto? Come faccio a conoscere Dio se non posso immaginarlo, se c’è persino un comandamento che mi ingiunge di non farmi di Lui alcuna immagine?

Le cose fortunatamente non stanno proprio così.

Il comandamento ci ricorda che ciò che vediamo non è Dio; il che non significa che non dobbiamo usare nessuna immagine per farci un’idea di Dio, altrimenti bisognerebbe abolire dalle Chiese tutte le statue e tutti i dipinti che raffigurano la Madonna, gli angeli e i santi: semplicemente tutte queste immagini sono segno di Dio cioè rimandano, ci ricordano, ci aiutano ad avvicinarci a Dio, ma non sono Dio. Tra tutte le immagini però ce ne sono due in particolare che più ci avvicinano a Dio: quella di un uomo crocifisso e quella di un bambino. La Pasqua ed il Natale sono le feste cristiane più importanti, in queste feste Gesù è raffigurato appeso ad una croce e in una culla. Quindi se pensi a dio come ad un uomo crocifisso o ad un bambino sei molto vicino al Dio cristiano. Cristo si identifica in modo particolare con le persone crocifisse, cioè con coloro i quali sono schiacciati da un dolore o da una sofferenza - non importa se questo dolore è la diretta conseguenza delle proprie colpe o delle azioni altrui: ovunque c’è un essere umano che soffre lì c’è Dio -. E si identifica anche in modo particolare con i bambini, cioè con chi è bisognoso, con chi non può provvedere a se stesso, con chi è povero - quale che sia la natura di questa povertà (economica, sociale, psicologica, morale, spirituale, ecc.).

Quindi fra tutte le immagini che popolano la nostra interiorità, quelle che raffigurano noi stessi e gli altri come sofferenti, poveri e bisognosi sono le immagini che più ci fanno conoscere Dio, noi stessi e gli altri. Le immagini che meno vorremmo che abitassero il nostro mondo interiore sono proprie le immagini che più ci mettono in una vera connessione tra di noi e con Dio. Il Dio cristiano ha deciso di identificarsi non con i potenti della terra ma con gli ultimi, il Magnificat dice espressamente che Dio rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili. Questa frase aveva talmente inquietato Napoleone che decise di abolire la festa dell’Assunta del 15 agosto sostituendola con la festa di San Napoleone (sic!). Puntualmente il Dio che rovescia i potenti dai troni rovesciò anche Napoleone, il quale poi nel periodo dell’esilio ebbe modo di approfondire la conoscenza del Vangelo e di Gesù Cristo e di riconciliarsi con il Dio che aveva osato sfidare. 

La storia di ogni uomo è nel piccolo la storia di un Napoleone. 

Ciò che ci rende umani è esattamente ciò che più ci avvicina a Dio. Nonostante il mondo esalti la forza, nonostante ci incoraggi ad essere autosufficienti e capaci di provvedere a noi stessi, non è nella forza o nella potenza che incontriamo Dio, ma nella debolezza. E quindi non è nemmeno nella forza che conosciamo noi stessi, ma nella debolezza. Chi non ha fatto i conti con la propria miseria, anche se ha fatto lunghe ed interminabili analisi psicologiche non può ancora dire di conoscersi. Chi non si è lasciato amare nella propria miseria, non sa ancora cosa significa essere amati. Chi non ha amato l’altro nelle sue miserie non sa ancora cosa sono i veri legami umani. 

Ecco Dio ed ecco l’uomo:





mercoledì 8 ottobre 2025

Conosci te stesso

Conosci te stesso è la famosa massima inscritta nel tempio di Apollo a Delfi che da sempre affascina filosofi, studiosi di varie discipline o semplici curiosi e appassionati del mondo antico.

Ma cosa intendevano davvero gli antichi greci con questa esortazione? 

Per provare a cogliere il significato originale di questa massima dobbiamo partire dal luogo in cui era collocata. La troviamo in un tempio, quindi in un luogo pubblico dedicato al culto di una divinità. Appare subito evidente che gli antichi greci, almeno nelle intenzioni di chi ha affisso questa scritta, mettono in collegamento l'interiorità con dio. 

Domanda: perché chi metteva piede nel tempio era invitato a conoscere se stesso? Evidentemente per mettersi in rapporto con dio, o per mettere dio in rapporto con se stesso. Secondo una variante neo-pitagorica di questa massima il conoscere dio era la conditio sine qua non per conoscere se stessi, quindi la troviamo riportata cosi: "Conosci dio, per conoscere anche te stesso". Che fosse la conoscenza di dio a precedere la conoscenza di se stessi o, al contrario, che fosse la conoscenza di se stessi a precedere la conoscenza di dio, è certo che queste due "conoscenze" per gli antichi greci non potessero essere disgiunte. Quindi è da rigettare la moderna interpretazione di questa massima che suonerebbe più o meno così: "Conosci i tuoi punti di forza e i tuoi limiti, così potrai funzionare meglio nel lavoro, nelle relazioni, nella società". Per gli antichi greci era impossibile che l'uomo potesse conoscersi senza rapportarsi con Dio, con l'Essere primo. Anche la stessa filosofia greca era un modo di mettersi in rapporto con Dio attraverso la dialettica, il logos, la ragione. E questo rapporto non era qualcosa di intimistico, che riguardava solo il singolo, ma coinvolgeva una comunità. Ricordiamo a tal proposito che i dialoghi socratici come riportati da Platone avvenivano tra amici, che discutevano di filosofia, di religione, di amore, di politica, ecc.

Teniamo a mente questi legami: dio-interiorità-comunità. E proseguiamo...

Chi era Apollo?

Una delle dodici divinità dell'Olimpo, presiedeva le arti e le scienze (la medicina in particolare) ma, soprattutto, era il dio delle profezie: dava luce intellettuale agli uomini, li illuminava attraverso le scienze e le arti, e li metteva in guardia dai pericoli futuri. Così parla di lui Euripide: "Eri ancora un bambino, giocavi ancora in grembo alla madre, Febo, ma uccidesti il drago, e l’oracolo fu tuo: dal tripode d’oro, sul trono che non mente, adesso pronunzi presagi per i mortali: dentro il sacrario, sei vicino alla fonte Castalia, possiedi il centro del mondo." 

Aggiungiamo quindi gli ultimi due pezzi per completare la catena che sarà così composta: dio-interiorità-comunità-scienza-profezia. 

Il "Conosci te stesso" implica tutti questi aspetti, che sono inscindibili. In che modo gli antichi greci riuscissero a tenerli insieme, non saprei dirlo, bisognerebbe sentire uno storico; ma che avessero colto uno stretto legame fra tutti questi elementi, questo sì, è evidente.    

Soffermiamoci sui primi due anelli della catena che abbiamo sviluppato: dio-interiorità. Prendiamo in considerazione il “Conosci te stesso” nell’interpretazione citata all'inizio del post, "Conosci dio, per conoscere anche te stesso", e poniamoci la domanda: Chi è o che cos'è dio?

Dio può essere inteso in due accezioni: una appartenente alle religioni formalmente codificate che hanno una dottrina e dei riti pubblici; e un'accezione filosofica per la quale dio è tutto ciò da cui dipende la nostra esistenza. Solo secondo la prima accezione gli esseri umani possono essere atei, nel senso che non tutti aderiscono ad una religione ufficiale. Nella seconda accezione invece nessun essere umano è ateo, perché tutti dobbiamo dare una risposta anche solo implicita a questa domanda: "Da che cosa dipende la mia esistenza?". In questo post, si è detto che in questa seconda accezione la cultura dominante di oggi non è atea, ma adora la materia, e non una materia qualsiasi ma la materia di cui è fatta il nostro corpo. Questo in termini generali, se scendiamo nel particolare invece, chi ad esempio ha una dipendenza relazionale fa del proprio partner il suo dio, chi ha una dipendenza sessuale fa del sesso il suo dio, ecc.

Quindi: prima ancora di conoscere te stesso, qualsiasi cosa significhi per te questa frase, è necessario rispondere a questa domanda: Chi è (o chi sono) il tuo dio (o i tuoi dei)? - Oppure, detto in altri termini: Da che cosa dipende e, quindi, a cosa tende la tua esistenza? - O, ancora: Verso cosa sei teso, cioè di cosa ti preoccupi prevalentemente? Quali sono le principali preoccupazioni che affollano la tua mente?

Se rispondi a queste domande con onestà si sveleranno per te i primi due anelli della catena (dio ed interiorità), cioè si svelerà che la tua interiorità è plasmata in primis dalle tue divinità. Poi ci sono altri tre anelli da svelare, ma per il momento fermiamoci qui ché c'è già tanto su cui riflettere.


domenica 5 ottobre 2025

L’autocoscienza

Questo blog è nato con l’esplicito obiettivo di far dialogare psicologia e filosofia. Un dialogo per dirsi tale deve far parlare entrambi gli interlocutori e soprattutto deve farli parlare per sé e non a nome dell’altro, altrimenti non è un dialogo ma è una prevaricazione. Ultimamente assistiamo a una prevaricazione della psicologia, che parla anche a nome di altre discipline; in modo particolare parla a nome della filosofia e della religione, con la corresponsabilità degli appartenenti a queste ultime due discipline che, tranne rare eccezioni, hanno deciso di tirare i remi in barca e vivere nel ricordo nostalgico dei tempi d’oro passati. Nel post precedente ho denunciato l’inattività colpevole dei cristiani, bisogna però anche attestare la dipartita dei filosofi, i quali stanno osservando un periodo di digiuno dopo aver fatto indigestione di Hegel e, soprattutto, di Marx. Nell’attesa che termini la loro convalescenza gli auguriamo una pronta guarigione perché abbiamo bisogno di loro.

Ovviamente non mi riferisco a quei filosofi e quei religiosi che si sono pienamente adattati allo zeitgeist, allo spirito del tempo. Questi purtroppo sono nemici della verità essendo lo spirito del tempo da sempre menzognero. Mi riferisco a coloro i quali sono coscienti delle menzogne che ci circondano ma preferiscono ritagliarsi una nicchia di comodità e contemplare i fasti del passato, come se la verità fosse un verbo che si declina solo al passato.

Sul tema della coscienza e dell’autoconsapevolezza, ad esempio, filosofia e religione avrebbero da dire molto più della psicologia e della psicoterapia. In psicoterapia il massimo grado di consapevolezza che si può raggiungere è quella riguardante i propri pensieri, desideri, emozioni, ecc., cioè la coscienza, più o meno immediata, di essere un’individualità separata da altre individualità. Chi ricerca attraverso la psicoterapia altri livelli di consapevolezza fa un buco nell’acqua. Fa eccezione la psicoanalisi, che permette di accedere a più profondi livelli di consapevolezza, ma lo fa non in quanto psicoterapia ma in quanto filosofia. Quando gli psicoanalisti gettano nuova luce sulla nostra interiorità lo fanno in qualità di filosofi, anche se non lo dicono esplicitamente. Gli psicoanalisti sono filosofi che non ci hanno creduto abbastanza (alla filosofia), o psicologi che ci hanno creduto troppo (alla psicologia). Rimangono quindi in una terra di mezzo, mezzi psicologi mezzi filosofi. Chi scrive non ama le cose di mezzo, ma nell’attesa del ritorno sulla scena dei filosofi vanno benissimo gli psicoanalisti. Anzi, dirò di più, chi oggi vuole fare seriamente filosofia deve partire dalla psicoanalisi, segnatamente da quella freudiana, e abbandonare una volta per tutte le ipostasi del Capitale e del Lavoro, delle quali i filosofi per troppo tempo hanno fatto indigestione. Non esiste né il Capitale né il Lavoro, esiste l’uomo con la sua soggettività. Non esiste nemmeno il capitalismo, esiste da sempre l’uomo con il suo desiderio di accumulare ricchezze e di vivere di rendita. Questo desiderio è presente nel capitalista come nell’operaio - per usare le categorie nelle quali sono rimasti impantanati i filosofi -. Non sono le strutture economiche che fanno l’uomo, è l’uomo che fa le strutture economiche. Capisco che l’uomo spesso è noioso e poco stimolante, ma questo non è buon motivo per andarsi a cercare realtà che non esistono.

Torniamo all’autocoscienza. Molte persone vengono da noi psicologi per vedere soddisfatti i bisogni emotivi primari, cioè per sentirsi confortati, ascoltati, per ricevere calore emotivo e protezione. Perché in un’epoca in cui le relazioni naturali (cioè relazioni familiari, amicali, ecc.) sono precarie, le persone non possono veder soddisfatti questi bisogni nelle relazioni della loro vita. Ed il ripetuto mancato soddisfacimento di questi bisogni può portare a seri disturbi mentali, per i quali poi si rende necessario l’intervento dei professionisti della salute mentale. Ma questa non è vera introspezione. 

La vera introspezione, che conduce alla coscienza di sé, appartiene alla dimensione spirituale. A cui si può accedere però solo dopo che i bisogni psicologici di base sono stati soddisfatti. Non è quindi mia intenzione banalizzare in alcun modo il lavoro psicologico. Intendo solo dire che il lavoro psicologico non esaurisce il lavoro esistenziale dell'uomo: c'è anche un lavoro spirituale da fare. 

Non si confonda la spiritualità con le moderne tecniche di meditazione di derivazione orientale. Noi in Occidente le usiamo al di fuori di una cornice spirituale, le usiamo per far funzionare meglio l’Io. Non ho nulla contro questo tipo di utilizzo in psicologia, semplicemente non si tratta di spiritualità; e d’altra parte non è compito della psicologia occuparsi di spiritualità.

Perché queste tecniche non possono essere considerate vera spiritualità (almeno da noi in Occidente)? 

Perché la spiritualità, come qualsiasi cosa seria della vita, necessita di una dimensione etica condivisa e codificata, necessita di quelli che nelle religioni si chiamiamo precetti o comandamenti. Anche nel buddismo sono presenti dei precetti da rispettare che, tra l’altro, sono molto simili al decalogo ebraico-cristiano. Nel mondo ci sono diverse religioni, la vita spirituale però è una sola. Ed esige che si rispettino delle regole. D’altra parte, se uno mette piede per la prima volta in una palestra deve farsi seguire da un istruttore se non vuole farsi male sotto il carico dei pesi, e poi deve anche seguire una dieta. Se vogliamo fare sport seriamente ci sono delle regole da rispettare, non solo durante l’allenamento ma anche prima e dopo. Generalmente quando si tratta dei benefici da apportare al nostro corpo comprendiamo ed accettiamo la necessità di affidarci a degli esperti e seguire delle regole, anche ferree. Nella vita spirituale invece non vogliamo nessun tipo di regola, nessun codice di condotta, pretendiamo che funzioni il fai-da-te, che sappiamo non funzionare in nessun altro ambito della nostra vita. In Occidente spesso facciamo gli apprendisti stregoni della spiritualità e il rischio di farsi male è molto alto. Basta vedere i tassi di divorzi, di suicidi, di disagi relazionali di vario tipo, di violenze per averne un’idea. 

Ma abbiamo tanti psicologi.

Ecco appunto, abbiamo tanti psicologi ma abbiamo lo stesso tanti problemi. Perché la radice di questi problemi è spesso (non sempre ovviamente) in un disordine della vita spirituale. È stato già detto (qui e qui) che “spirituale” e “psicologico” non coincidono e che, quindi, la psicologia funziona se il disordine è prettamente psicologico. 

Chi non vuole alcun tipo di precetto o comandamento, deve rinunciare alla vita spirituale, con il rischio di rinunciare ad essere uomo, perché l’uomo si realizza pienamente solo nella vita spirituale.

L’Europa ed il trauma non risolto

L’Europa è bloccata internamente da un trauma non risolto il quale, come tutti i traumi, presenta delle manifestazioni tipiche: negazione (d...