martedì 30 settembre 2025

Psicologico e Spirituale

Nei post precedenti (qui e qui) si è detto che la natura umana è la più incompiuta del regno animale ed è portatrice di una ferita molto profonda. L'uomo è l'unico animale che appare in lotta con la propria natura, in lotta con se stesso, in lotta con il suo proprio Essere: è l'animale che fa più fatica ad accettarsi e a vivere in armonia con il creato; fa fatica, soprattutto, a vivere in armonia con i suoi simili al punto che per difendersi (dai suoi simili e, quindi, da se stesso) ha riempito il pianeta di armi di distruzioni di massa. In tutti gli altri animali i pericoli maggiori non provengono dalla specie di appartenenza dell'animale: il topo, ad esempio, teme più un gatto che un altro topo. All'interno della stessa specie gli animali possono essere aggressivi tra loro per la contesa di un territorio, per la difesa della prole, per il primato nell’accoppiamento ma non vanno mai oltre i limiti imposti dai bisogni della loro natura. E, soprattutto, prede e predatori appartengono a specie diverse. L'uomo invece è l'unico animale che è capace di fare di un suo simile una preda; di sottometterlo, di annichilirlo, di distruggerlo per soddisfare non si sa bene quali bisogni. In sintesi: l'uomo è l'unico animale capace di autodistruggersi. Sul piano fisico, psicologico e spirituale.

Adesso dobbiamo fermarci un attimo per distinguere questi piani. Non mi soffermo sul piano fisico, è evidente che abbiamo un corpo ed una vita fisica da preservare. Meno evidenti e più difficili da distinguere sono il piano psicologico e quello spirituale, soprattutto in un'epoca che ha "psicologizzato" tutta l'esistenza. E noi professionisti della salute mentale dobbiamo fare un profondo esame di coscienza perché abbiamo contribuito enormemente a questa confusione. E non riconoscendo che nell'uomo c'è anche una vita spirituale ci ostiniamo a trattare problematiche spirituali come se fossero solo ed esclusivamente problematiche psicologiche. O, peggio ancora, impediamo alle persone di maturare una consapevolezza dei propri disordini spirituali perché lasciamo credere che sia sufficiente essere sani solo dal punto di vista psicologico. Molte persone effettivamente sono “sane” dal punto di vista psicologico, ma hanno soffocato la vita spirituale. 

Partiamo dal piano psicologico. Per identificarlo utilizziamo il criterio principale per fare diagnosi di un disturbo mentale in psichiatria ed in psicologia clinica: i sintomi psicologici devono causare una compromissione del funzionamento lavorativo o relazionale. Cosa significa che l'uomo deve funzionare nel lavoro e nelle relazioni? Il verbo "funzionare", che è più appropriato ad una macchina - purtroppo così ci si esprime in psichiatria e psicologia -, fa riferimento alla capacità di autonomia nel lavoro e nelle relazioni. Cioè l'uomo ha necessità di maturare una capacità di autonomia nel lavoro per poter dare il proprio contribuito alla società, ed una capacità di autonomia nelle relazioni per non essere psicologicamente dipendente dagli altri. Il piano psicologico è il livello in cui si rende possibile questa autonomia. Specifico subito che autonomia non equivale ad autosufficienza. L'uomo è l'animale meno autosufficiente che esista. Non è in grado di provvedere da sé alla maggior parte delle sue necessità: vive in case che altri hanno costruito, indossa vestiti che altri hanno prodotto, mangia cibi che altri hanno processato, ecc. Autonomo quindi non è da tradursi con: non ho bisogno di nessuno e faccio quello che mi pare. Autonomo significa essere nelle condizioni di poter dare il mio contributo alla società, perché io ho bisogno degli altri ma anche gli altri hanno bisogno di me. 

Arriviamo alla vita spirituale. Proviamo a definirla solo per quanto è necessario a distinguerla dalla vita psicologica. 

La vita spirituale è la dimensione contemplativa dell’uomo. L’uomo non deve solo funzionare ma ha anche bisogno di contemplare il Vero, ammirare il Bello e conformarsi al Buono. Sono tutti e tre la stessa cosa perché la verità ha un’intrinseca bellezza, è piacevole ed è anche buona (in senso etico). Il che non vuol dire che non sia faticosa; molti esseri umani arrivano a sacrificare la loro stessa vita per la verità. Chi è alienato dal Vero inevitabilmente vive una vita falsa; potrebbe anche funzionare nella vita - anche se qualche scricchiolio è di solito presente nelle relazioni - ma la sua esistenza è inautentica. Sono i sepolcri imbiancati di cui parla Gesù nel Vangelo, persone che non sono consapevoli di essere malate (spiritualmente) perché la loro vita funziona relativamente bene; in queste persone una psicoterapia rischia di aggravare le problematiche spirituali non riconosciute. Al contrario, c’è chi non riesce a funzionare  nel lavoro e nelle relazioni, ma vive un’autentica vita spirituale; queste persone invece rispondono abbastanza bene agli interventi psicologici. E poi infine c’è chi non “funziona” e non ha nemmeno una vita spirituale; in queste persone la psicoterapia potrebbe funzionare solo se la persona ha preso consapevolezza che ha anche problemi di natura spirituale. 

Concludo evidenziando un aspetto: non è compito dello psicologo occuparsi della vita spirituale. La psicologia deve fornire gli strumenti per far funzionare meglio l’uomo. Il campo spirituale appartiene alla religione, alla filosofia, all’arte (e alla letteratura). La vita spirituale è quel mistero che ogni essere umano si porta dentro, che non può essere completamente compreso e spiegato ma che se c’è si vede subito: ogni autentico e disinteressato atto di amore proviene da questa vita spirituale. E al contrario: la sopraffazione del prossimo, lo sfruttamento del creato, il rifiuto dei limiti (in primis quelli dettati dal proprio corpo), la ricerca di un piacere egoistico, il ripiegamento su se stessi sono tutti segni di disordini spirituali. 

sabato 27 settembre 2025

Il tramonto dell’Occidente

"Non c’è caduta che non vada per gradi" (Cormac McCarthy).

I problemi che riguardano gli aggregati sociali umani sono espressione di problemi che riguardano l’interiorità dell’uomo. Nel cosiddetto "mondo interno" non c'è solo la componente psicologica, ma anche quella spirituale e morale. È un errore considerare “interiore” e “psicologico” come sinonimi. Nella nostra interiorità ci sono molte più sfaccettature di quante la psicologia riesca a coglierne. E ci vogliono altre discipline per cogliere questi aspetti. Tra l’altro in psicologia non c'è consenso tra gli studiosi né sull'oggetto di studio né sul metodo di indagine (P. Moderato, G. Miselli, Scienza e metodo in Manuale di psicologia contestualista, a cura di P. Moderato. FrancoAngeli 2019). Ne consegue che bisogna utilizzare le conoscenze e gli strumenti psicologici con molta prudenza. D'altra parte la prudenza ispira anche la scienza medica con il noto principio etico primum non nocere

Purtroppo la prudenza ispira sempre meno i comportamenti sociali dell'uomo occidentale, e ciò lo rende pericoloso per sé e per gli altri. 

Fatta questa necessaria premessa per evitare quella "psicologizzazione" della realtà di cui si è parlato nel post precedente e che è fonte di molti abbagli, proviamo ad analizzare l'interiorità dell'uomo occidentale a partire da alcuni "sintomi" sociali. Nel post sulla famiglia abbiamo affrontato alcuni "sintomi" familiari. 

Lo svuotamento interiore dell’uomo occidentale è evidente in Europa, nella periferia culturale dell’Occidente; il centro sono gli USA. Lì forse è già notte, da noi si fa sera.  

Interiormente l'uomo europeo è oppresso dal dogmatismo "inclusivo" di stampo americano; dogmatismo che si accanisce pesantemente contro il linguaggio forzandolo ad essere "inclusivo". Per carità, una certa igiene del linguaggio è sempre necessaria, ma una volta ci si limitava a censurare il linguaggio scurrile o esplicitamente offensivo. Oggi invece invece qualsiasi tipo di volgarità o di violenza verbale è concessa. Basta guardare un talk show a caso: l'aggressività verbale è la costante (ci si insulta persino nei programmi di cucina!) purché si usi un linguaggio che formalmente non escluda nessuna minoranza. I moderni censori, insomma, filtrano il moscerino e lasciano passare il cammello. 

A rendere ancora più paradossale la situazione dell’Occidente è la pretesa di essere un faro di civiltà per il resto del mondo, la convinzione che tutti gli altri al di fuori del perimetro culturale occidentale vorrebbero essere come noi; e un giorno diventeranno come noi quando si saranno definitivamente liberati di quei lacci che ancora li tengono legati, e che impediscono loro di spiccare il volo verso la libertà, il progresso, la civiltà. 

Credo che il nostro volo, visto da altre angolature, assomigli ad una caduta libera. 

Ma cos’è una civiltà? Da che cosa si misura una civiltà?

Lasciamo da parte le dissertazioni di Voltaire sullo Stato, noi qui preferiamo andare un po’ più terra terra. Una civiltà in primis si vede da come tratta i bambini e le donne. 

Della condizione femminile ne ho già parlato in altri post (qui in particolare). Adesso soffermiamoci sui bambini.

In alcuni reportage del 2013 il New York Times e il Daily Mail documentano le conseguenze sui bambini greci delle misure imposte alla Grecia dalle istituzioni economiche occidentali (FMI, BCE e Commissione Europea): a causa dell’aumento della povertà, molti bambini malnutriti svengono a scuola al punto che in alcuni istituti si rende necessario sospendere l’ora di educazione fisica; l’80% dei bambini negli orfanotrofi proviene da famiglie greche che non sono più in grado di provvedere al loro sostentamento. Sono costretto a citare la stampa anglosassone, perché quella italiana, per propria ammissione, censurava queste notizie per motivi di natura politica. In generale, tutta la società civile in Europa si è mostrata abbastanza indifferente alle sorti dei greci. Quella stessa società civile che è molto attenta alle ingiustizie subite dai popoli lontani, mostra invece totale noncuranza per le tragedie che si consumano nei popoli più prossimi. Non a caso Gesù ci chiede di amare il nostro prossimo, perché per amare i lontani non serve il Vangelo, è sufficiente quella filantropia borghese che da sempre si sceglie i popoli che meritano il suo "amore"; solitamente sono popoli remoti, con cui non si intessono dei reali rapporti. Di conseguenza l’amore borghese è falso (come anche la sua coscienza) perché è possibile amare solo quando si è in una vera relazione, quale che sia la natura di questa relazione.

Qui possiamo fermarci un attimo e fissare un punto: quella che noi in Occidente chiamiamo coscienza civile non è in realtà così “civile” come ci piace millantarla. Nel senso che non è mossa da un vero amore per le sorti del prossimo, ma è mossa da motivi ideologici, economici e politici (al netto di quel sano moto di indignazione che proviamo quando veniamo a conoscenza di un’ingiustizia, vicina o lontana che sia). Quindi, una società che lascia morire di fame i bambini agli occhi del mondo non appare propriamente un faro di civiltà, non è un esempio da seguire. 

Evidenzio che ciò che è accaduto ai bambini greci è stata la diretta conseguenza di decisioni provenienti da istituzioni sovranazionali occidentali. Ciò rende tali azioni particolarmente gravi, perché le istituzioni sovranazionali devono ispirarsi a principi di pace, giustizia, uguaglianza, promozione di migliori condizioni di vita, come è il caso dell'ONU, ad esempio. Le istituzioni occidentali, in modo particolare quelle di natura economica, al contrario, quando intervengono non solo non risolvono i problemi sociali ed economici, ma li aggravano.   

Concludo soffermandomi su un ultimo aspetto riguardante i bambini.

Negli ultimi dieci anni sono esplosi corsi di educazione sessuale a favore dei più piccoli, che si presentano con il titolo di "educazione alla sessualità e all'affettività". Non conosco bene questi corsi, il titolo lascia intendere che la sessualità sia preponderante rispetto all'affettività, che quest'ultima sia secondaria rispetto all'educazione sessuale. E ciò sarebbe pienamente in linea con il clima di eccessiva sessualizzazione che caratterizza la nostra società. Nel post "Il tramonto della famiglia" ho evidenziato che nelle famiglie di oggi serpeggia un pericoloso clima incestuoso. Similmente la società è pervasa da un clima di eccessiva sessualizzazione che invade tutti gli ambiti, educazione compresa. Questa società non riesce a concepire un diritto che non abbia un qualche tipo di collegamento con la sessualità. Si possono chiudere ospedali, fabbriche, si possono affamare i bambini, si può censurare la verità; tutto è accettato, purché la sessualità sia libera e disinibita. D'altra parte, non è nemmeno chiaro che cosa significhi educare un bambino all'affettività. Un bambino ha bisogno di sentirsi amato, e l'amore non lo si apprende da un corso di formazione, ma lo si riceve gratuitamente nelle interazioni con gli adulti significativi (genitori, maestri, insegnanti, ecc.).     

Ritorniamo ad una sana prudenza. Primum non nocere...

martedì 23 settembre 2025

Interiorità e psicoterapia

 Le psicoterapie hanno diversi gradi di introspezione: la psicoanalisi, ad esempio, si presenta come una terapia molto introspettiva, si pone l'obiettivo di aiutare l’Io a conoscere ed integrare ciò che è ignoto persino all'Io stesso (che riesca effettivamente in questo proposito, come vedremo a breve, è tutto da dimostrare); la psicoterapia cognitivo-comportamentale non ha obiettivi di introspezione così alti, si propone di aiutare l’Io a funzionare meglio - parlo delle terapie che conosco abbastanza bene -. La psicoterapia cognitivo-comportamentale è più vicina ad essere una scienza nel senso moderno, cioè fornisce delle tecniche per far funzionare meglio l’uomo sul piano psicologico, come la medicina lo fa funzionare meglio sul piano fisico. Ovviamente un certo grado di introspezione è necessaria per qualsiasi psicoterapia, tuttavia la psicoterapia cognitivo-comportamentale non si spinge fino a ciò è ignoto all'Io, ma si limita per esempio a chiarificare e, successivamente, a mettere in discussione tutte quelle valutazioni, pensieri, giudizi che formuliamo e che alimentano la sofferenza mentale; ad esempio in un paziente che soffre di depressione, può diventare oggetto di trattamento il pensiero "è inutile che mi alzi dal letto per andare a lavorare tanto per me le cose andranno sempre male". Questo pensiero non è inconscio, cioè non è totalmente ignoto alla persona che lo adotta, al massimo può essere implicito negli atteggiamenti di un paziente depresso, ma non si tratta di una conoscenza completamente estranea all'Io. La psicoanalisi invece si spinge fino a ciò che è del tutto ignoto, fino a ciò che nemmeno il paziente sa di se stesso. E qui ci si espone ad una serie di rischi, ci si incammina in un terreno lastricato di insidie. Perché ciò che è estraneo all'Io è molto spesso estraneo anche alla psicologia, infatti la psicoanalisi percorre spesso un territorio di confine tra psicologia e filosofia (non di rado effettua anche delle incursioni nella religione). Molti psicoanalisti trattano infatti anche di filosofia e di religione (Freud stesso scrisse di religione). Fin qui non c'è nulla di male. Il problema è che spesso non viene chiaramente distinto il piano psicologico da quello filosofico e religioso. Filosofia e religione sono discipline autonome, non possono essere usate solo come stampelle per le teorie psicologiche. In questo modo si riduce tutta l'esistenza ad una manifestazione della psicologia dell'uomo, tutto è una proiezione psicologica e, quindi, tutto diventa oggetto della psicologia. Purtroppo Freud stesso ha inaugurato questa strada di "psicologizzare" tutto il reale. Lo perdoniamo. È stato un pioniere, e come tutti i pionieri si è spinto un po' troppo oltre. Lo stesso complesso di Edipo (ne ho parlato dettagliatamente qui) vede la sua origine secondo Freud in un divieto paterno, in un atto morale della figura del padre, e non in un generico divieto, ma in un esplicito divieto riguardante la sessualità. Ritengo personalmente che il complesso di Edipo sia la parte più illuminante e interessante della produzione intellettuale di Freud, ma solo un cieco non si accorge che dentro questo complesso ci sono elementi filosofici e religiosi che, come tali, non sono di esclusiva pertinenza della psicologia. Un'altra ambiguità della teoria freudiana riguarda il concetto di inconscio. Va detto che molti psicoanalisti con onestà hanno ammesso che non sembra esserci nell'uomo l'inconscio freudiano. Manca però il coraggio di fare il passo successivo: mettere definitivamente alle spalle l'inconscio, l'ignoto ed aprirsi con umiltà ad altre discipline, senza usarle come stampelle della psicologia. Ad es., all'ontologia che può dirci qualcosa sul rapporto tra l'Io, l'Essere e il non-essere; alla teologia e alla religione che possono dirci qualcosa su Dio, l'uomo e il male. Se non lo si fa, il rischio è di rigettare l'uomo reale per tenere in piedi un qualche tipo di inconscio psicologico a cui ci siamo affezionati, per via di quell'atteggiamento tipicamente umano di rimanere attaccati alle teorie e rifiutare la realtà.

Ricordo che un enunciato per dirsi scientifico deve essere universale. La legge di gravità è scienza perché è una legge universale (almeno nella fisica macroscopica): se ci sono due corpi ci deve sempre essere la legge di gravità. Anche per la psicologia vale la stessa cosa: se il concetto di inconscio psicologico fosse scientifico lo troveremmo in ogni uomo. Se oggi non troviamo l'inconscio nell'uomo non è perché ad un certo punto l'uomo lo ha perso per strada, ma perché Freud aveva preso un abbaglio, a causa di un utilizzo disinvolto e poco rigoroso di elementi provenienti dalla filosofia e dalla religione, che sono stati resi oggetto di una eccessiva "psicologizzazione".

Se l'Io ignora totalmente qualcosa è perché gli è completamente estraneo. E sottolineo: se qualcosa è totalmente estraneo all'Io è anche totalmente estraneo alla psicologia, cioè ci vogliono altre discipline, nel rispetto dei metodi e dei confini di quelle discipline. Non si prendano a riferimento i disturbi dissociativi o i disturbi gravi della personalità per sostenere una presunta scissione dell'Io o presunte forze ignote e inconsce. In questi casi la persona potrebbe non ricordare ciò che ha fatto o avere comportamenti estremi e contradditori, ma nel momento in cui agisce la persona riferisce a sé gli atti che compie, quindi non gli sono estranei, anche se dopo potrebbe pentirsene o prenderne in qualche modo le distanze. Aggiungo che sui disturbi di personalità ne sappiamo ancora molto poco, e pochi progressi faremo se continuiamo a fare i rapaci di altre discipline anziché fare un’analisi dello stato dell’arte con umiltà. Ad onore del vero va detto che questo atteggiamento rapace non è esclusivo della psicoanalisi, ma di tutta la psicologia, basti pensare alle abbuffate di mindfulness e di terapie orientali che ultimamente stiamo facendo. 

Concludo ricordando che l’Io è un concetto che la psicologia ha preso in prestito dalla filosofia, l'Io è la consapevolezza immediata che abbiamo di noi stessi come enti distinti da tutto ciò che ci circonda. È il cogito ergo sum di Cartesio. Penso quindi sono. Al cogito possiamo anche aggiungere desidero, soffro, gioisco, agisco, ecc. Per via di ciò io so di essere (qualcosa). Quindi l’Io per sua natura è già capace di consapevolezza e soggettività. Ce n'è già abbastanza per fare psicologia.



sabato 20 settembre 2025

L’emancipazione dell’uomo e della donna

Viviamo in un’epoca che parla molto di emancipazione femminile, si è già accennato in questo post come in realtà questa società sia intrinsecamente misogina perché utilizza l’uomo come misura di riferimento per giudicare il grado di emancipazione femminile. 

Preciso subito per evitare fraintendimenti: è un progresso di civiltà il fatto che oggi la donna possa ricoprire ruoli lavorativi, comprese cariche pubbliche e politiche, prima ad esclusivo appannaggio degli uomini. L’ingresso delle donne nel mondo lavorativo è stato probabilmente favorito anche dal lungo periodo di pace di cui abbiamo goduto in Europa e in Occidente dopo la seconda guerra mondiale. Non che non abbiamo più avuto tensioni e conflitti armati, ma è dalla seconda guerra mondiale che in Occidente non combattiamo una guerra che comporti la mobilitazione di intere nazioni. Pertanto tale periodo di relativa pace ha riavvicinato gli uomini alle famiglie svincolando le donne dai rigidi ruoli familiari. Ricordiamo che fino alla prima metà del secolo scorso gli uomini trascorrevano spesso lunghi periodi lontani da casa a combattere guerre. Oggi non è più così fortunatamente. E questo è un progresso. Merito anche e soprattutto delle donne, come spiegherò meglio a breve. Qui non si discute di questo, ci mancherebbe altro. 

Qui si mette in discussione il modello antropologico maschile, che è stato utilizzato come riferimento per l’emancipazione femminile. Quando invece c’era bisogno dell’esatto contrario. 

È stato proposto alla donna l’uomo tout court come modello per la propria emancipazione. Compresi quell’aggressività, competitività, avidità di potere, volontà di possesso e di dominio, sessualità disordinata (che antepone il piacere all’incontro con l’altro), tipicamente maschili. Tutti aspetti che richiedevano, e richiedono ancora, un’emancipazione. 

È urgente che su questi aspetti la donna non diventi come l’uomo, sia per il rischio che non rimanga più nessun modello per l’emancipazione dell’una e dell’altro, e sia perché da questo campo la donna uscirà sempre sconfitta. L’uomo sarà sempre più aggressivo, più avido, più violento della donna, come attestano purtroppo i tanti  femminicidi ed episodi di violenza sulle donne.

Chi scrive è un uomo, e come uomo la vita mi ha donato tanti modelli femminili (in primis mia moglie), che mi hanno mostrato la sensibilità, il tatto, la delicatezza, l’empatia, la cura per il dolore, l’amore gratuito, la tenerezza, l’umiltà, la forza d’animo, l’accoglienza per il diverso, il sacrificio, la tutela dei più deboli, la capacità di conciliare i conflitti. Non sarebbe possibile per me vivere, lavorare e amare senza questi esempi.

È merito di queste donne se ho aperto questo blog che, tra l’altro, è interamente dedicato a loro. 

Le società da sempre si reggono su questi aspetti tipicamente femminili. Nell’ora buia, di un singolo individuo o di intere nazioni, sono le donne che accendono la luce della speranza. La nostra Costituzione, dopo una delle pagine più tristi della nostra storia, ha formalizzato rendendoli dei diritti costituzionalmente garantiti molti di quegli atteggiamenti tipicamente femminili che ho appena citato.

Quando una società perde i riferimenti femminili prevale l’orgoglio, la bramosia di ricchezze, la visione paranoica dell’altro come nemico. Se vogliamo l’equilibrio, l’armonia, la pace (quella vera, non quella imposta dal più forte) dobbiamo ritrovare e preservare il femminile come modello antropologico.

Non c’è speranza senza la donna, non c’è salvezza senza la donna.




venerdì 19 settembre 2025

Scienza e libertà umana

Viviamo in un’epoca che esalta un po’ troppo la forza, la resistenza, l’autoaffermazione. Il mondo esalta, penso da sempre, quella che Nietzsche definisce volontà di potenza, la volontà di affermare se stessi andando oltre i propri limiti, e quelli degli altri; infatti il filosofo tedesco teorizza uno ubermensch (un oltreuomo) che incarni la volontà di potenza, perché evidentemente non ha trovato un semplice uomo (senza il prefisso oltre-) con le caratteristiche che cercava. Ma la filosofia, come qualsiasi scienza, deve indagare la realtà che ci è data, non la realtà che vorremmo ci fosse. In campo scientifico sono le nostre idee (ipotesi) che devono adeguarsi alla realtà, e non il contrario. Altrimenti non è scienza, ma whishful thinking come dicono gli inglesi.

A noi qui interessano gli uomini e le donne, non gli oltreuomini né i superuomini.

(Non voglio sminuire troppo Nietzsche, il suo concetto di volontà di potenza ha una dimensione valoriale positiva; qui si mette in discussione l’assolutizzazione di questo concetto, il pensare che l’essere umano si realizzi nella volontà di potenza. Come i filosofi esistenzialisti cadono nell’errore di assolutizzare la debolezza dell’uomo, Nietzsche commette l’errore uguale e contrario di assolutizzare la forza dell’uomo.)

Oggi in psicologia si è diffuso un concetto che ai miei occhi appare molto simile al concetto di volontà di potenza di Nietzsche: quello di resilienza. La resilienza rimanda all’idea di uomo-capace-di-resistere, di uomo-che-ce-la-fa, insomma di un altro ennesimo ubermensch che si affaccia nella storia (prima dell’uomo-resiliente, abbiamo avuto il self-made man).

Ribadisco che non sono concetti da rigettare totalmente, ma vanno maneggiati con cura, senza abusarne, perché l’uomo è attratto molto dalla forza e poco dalla debolezza.  

L’uomo da sempre alimenta il desiderio di riuscire ad affermarsi (sugli altri), e mette al servizio di questo desiderio tutti gli strumenti di cui dispone. Da qualche secolo ha a disposizione le moderne conoscenze scientifiche. La Storia ci ha già insegnato che non ci facciamo molti scrupoli ad usare anche la scienza per schiacciare, soggiogare e sottomettere il prossimo. Questo dovrebbe essere un monito per chi crede che la scienza in quanto tale sia portatrice di pace. È sempre solo l’uomo che fa la pace o la guerra, e può usare la scienza per fare l’una o per fare l’altra. Ma il soggetto è sempre l’essere umano, con la sua libertà di fare il bene o il male. 

Mettiamoci l’anima in pace una volta per tutte: nessuna disciplina scientifica, dottrina filosofica, ecc. toglierà all’uomo la libertà di fare il male. Marx aveva attribuito al comunismo il compito che noi oggi attribuiamo alla scienza (e forse in modo particolare alla psicologia): quello di redimere l’uomo dal male. Il concetto di redenzione appartiene al cattolicesimo, lì trova il suo habitat naturale; è un concetto che riguarda il rapporto tra Dio e l’uomo. Quando l’uomo si fa Dio e vuole redimere il suo prossimo finisce male (si consiglia al riguardo la lettura dell’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI).  

Come psicologi, quindi, preoccupiamoci non tanto di redimere l’uomo quanto piuttosto di non assecondare la sua libertà di fare il male. Pertanto attenzione alle volontà di potenza mascherate da resilienza.


mercoledì 17 settembre 2025

Relazioni traumatiche

Devo alla psicoanalisi lacaniana (ringrazio un collega che mi ha aiutato ad accostarmi ad un autore ostico come Lacan) l’idea che la legge paterna sia disgiuntiva rispetto ad un precedente stato di unità. I lacaniani però si spingono troppo oltre mettendo sullo stesso piano legge paterna e trauma. In generale la psicoanalisi ha il peccato originale di non distinguere chiaramente ciò che è patologico da ciò che è sano. Se tutto è patologico niente è davvero patologico.

Facciamo chiarezza.

Quando un genitore vieta al figlio di mettere le mani sul fuoco non lo fa per traumatizzarlo ma proprio per evitargli il trauma della bruciatura. La legge paterna è vera legge (cioè è un vero atto morale) se è pensata e voluta nell’interesse del figlio. Se al contrario è un semplice arbitrio genitoriale non bisognerebbe più parlare di legge ma di possesso della vita del figlio da parte del genitore (o di chi ne fa le veci), e quindi il termine più appropriato è violenza, non legge. Certamente la violenza è traumatica. Ma la legge paterna, quella vera, è protettiva perché allontana da tutto ciò che è pericoloso. 

Entriamo più a fondo nel concetto di legge paterna che rompe un precedente stato di unità, perché questo concetto è rilevante dal punto di vista psicologico. Abbiamo visto nell’esempio di prima che il divieto genitoriale allontana il bambino da un potenziale pericolo fisico.

Soffermiamoci ora sui pericoli di natura psicologica.

Abbiamo visto che la legge paterna fa la sua prima comparsa con il complesso di Edipo intorno ai 3-4 anni di vita del bambino. Quell’unità simbiotica madre-bambino che ha caratterizzato grossomodo il periodo dell’allattamento ora deve essere rotta, sia per favorire l’autonomia del bambino dalla madre (e anche della madre dal bambino) sia per evitare pericolosi deragliamenti sessuali nel rapporto madre-bambino. Il modo smaccatamente volgare con cui noi oggi esibiamo la sessualità lascia supporre che i deragliamenti sessuali nelle famiglie siano la regola non l’eccezione. Se il padre non interviene, la conseguenza è che la sessualità deborda dai suoi confini. 

Quindi possiamo fissare un primo punto: ad ogni snodo evolutivamente critico la relazione deve rompersi per far spazio ad un nuovo e più maturo modo di essere in relazione. Non necessariamente una rottura definitiva, ma quella rottura necessaria per impedire che la relazione si ripieghi in un’appropriazione dell’altro. Secondo punto da fissare: quanto vale nel rapporto madre-bambino vale anche nelle relazioni di coppia, con una differenza: il bambino non ha la possibilità di svincolarsi dalle relazioni con i genitori se queste sono disfunzionali. L’adulto invece ha la possibilità di rompere una relazione infelice. Terzo punto: la relazione genitore-bambino è infelice perché è l'adulto ad appropriarsi della vita del bambino; la relazione tra due adulti solitamente è infelice perché entrambi i partner si appropriano l'uno della vita dell’altro. Quando un partner non si accontenta di una relazione infelice manda chiari segnali di rottura, se l'altro partner li accoglie la relazione prosegue, altrimenti le strade si dividono. Quando invece le relazioni infelici si cronicizzano è perché in realtà nessuno dei due partner ha voluto spingersi fino al punto da mettere veramente in discussione la relazione. 

Non bisogna assolutamente sottovalutare le relazioni infelici, perché a lungo andare abbattono le difese psicologiche portando le persone ad accettare l'inaccettabile, a considerare normale ciò che non lo è affatto. Queste relazioni traumatizzano ripetutamente le persone le quali, se non possono contare su altre relazioni riparative (o su un percorso di sostegno psicologico), rischiano serie conseguenze sul piano psicologico.

È proprio nei confronti di queste relazioni che Gesù dice: "Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa." (Mt 10,34-36). La separazione a cui Gesù fa riferimento è quella da relazioni di possesso che non rendono possibile né un vero amore né la realizzazione delle proprie vocazioni. Amore e possesso sono opposti. Anche amore e abitudine sono opposti. E siccome le relazioni umane scadono facilmente nel possesso e nell’abitudine, Gesù mette subito le cose in chiaro: non crediate che io sia venuto per lasciare le cose così come stanno, sono venuto per separarvi da relazioni infelici nelle quali vi siete accomodati. E la separazione, anche se è a fin di bene, è sempre dolorosa. Ma non tutto ciò che è doloroso è anche traumatico. 

Perché non riusciamo a porre fine a relazioni infelici? Che cosa rende dolorosa la separazione? La ferita di abbandono che ognuno di noi si porta dentro (se ne è parlato in questo post). Chiunque fa psicologia clinica seriamente prima o poi si imbatte in questa ferita. Anche chi ha buone capacità introspettive prima o poi la incontra dentro di sé. Si dirà: perché abbiamo questa ferita? Rispondo: non lo so. È come chiedersi perché c’è la morte, non lo sappiamo, ma c’è. Così è per la ferita di abbandono. 

Riconoscere che abbiamo una natura ferita è già un buon punto di partenza. Bisogna partire dal sentire questa ferita dentro di sé senza sforzarsi di comprenderla razionalmente; non la si può comprendere, va attraversata, anche se fa male, con l'aiuto di qualcuno, ma senza scaricare sull'altro la propria ferita. Ognuno ha il proprio fardello da portare...  

martedì 16 settembre 2025

La ferita di abbandono

 Proseguiamo sulla strada già tracciata di indagare sulla natura dell’uomo che, come si è già detto, appare incompiuta, la più incompiuta del regno animale.

In questo post cercherò di indagare la natura umana nelle sue ferite, in una in particolare, la più importante: la ferita di abbandono.

Nel post sull’uomo si è detto che per l’uomo la morte non è comprensibile, non è intelligibile. C’è un’esperienza però che è ancora più dolorosa della morte stessa: l’abbandono da parte di chi dovrebbe amarti. Questa esperienza è la più traumatica per l’uomo, più traumatica della morte stessa. Alcune persone possono arrivare a suicidarsi pur di evitare di vivere l’esperienza dell’abbandono. Ovviamente il suicidio è una falsa soluzione, è un atto egoistico perché quell’esperienza di abbandono che il suicida si è rifiutato di affrontare la carica sulle spalle di chi è rimasto in vita. Nessuna ferita può essere curata procurandola agli altri. Altre persone accettano di buono grado di essere abusate o sottomesse pur di non vivere l’esperienza dell’abbandono.

La ferita di abbandono è nucleare in molti disturbi mentali dei nostri tempi, in modo particolare nei cosiddetti disturbi di personalità, e tra questi, in uno soprattutto tale ferita appare in tutta la sua drammaticità: il disturbo borderline di personalità. Non è l’obiettivo di questo post soffermarsi sulla clinica dei disturbi di personalità, ma dire qualcosa sul retroterra relazionale che indebolisce le difese psicologiche esponendoci al trauma dell’abbandono.

Diciamo subito per sgomberare ogni dubbio che è un errore credere che tale ferita sia presente solo in alcuni disturbi mentali. È presente in tutti gli esseri umani, lo stesso Gesù sulla croce grida e denuncia l’abbandono di Dio. Sia che abbiamo disturbi mentali diagnosticabili sia che non li abbiamo, siamo tutti esseri umani e condividiamo tutti la stessa natura. Semplicemente nelle persone che soffrono di malattie mentali o fisiche, la natura ferita dell’uomo è maggiormente evidente. 

Così come disponiamo di difese immunitarie sul piano fisico, così le abbiamo sul piano psicologico. Ma né le difese immunitarie né le difese psicologiche sono insormontabili.

Oggi l’assenza di assi familiari chiari (se ne è parlato nel post precedente) indebolisce le difese psicologiche e ci rende più aggredibili dai “virus” mentali. Facciamo un esempio, se l’asse genitore-figlio è debole per immaturità del genitore, quest’ultimo potrebbe accostarsi al figlio non avendo chiari i suoi confini e le sue responsabilità, pretenderà ad esempio rassicurazioni emotive e protezione quando invece è compito dei genitori rassicurare e proteggere i figli. Se l’asse marito-moglie è debole sul piano affettivo, per mancanza di amore, per tradimenti, separazioni o minacce di separazioni, ciò esporrà i figli (e i coniugi stessi) ad un senso di precarietà relazionale ed esistenziale: mancherà la principale protezione dalla ferita di abbandono: la certezza di poter contare su legami stabili e indissolubili. Oggi si parla di varie forme di instabilità, da quella geopolitica a quella economica e finanziaria, ma si parla poco dell’instabilità forse più rilevante per l’esistenza umana: quella relazionale. “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso”.

Proseguiamo con un ultimo esempio. Se l’asse marito-moglie è debole sul piano sessuale, il genitore potrebbe ricercare nei figli quelle soddisfazioni sessuali che non trova nel partner esponendo i figli a gravi abusi sessuali (si ribadisce che non è necessario l’atto sessuale compiuto, è sufficiente un clima eccessivamente sessualizzato per configurare l’abuso). Tutte queste dinamiche avvengono nella maggior parte dei casi inconsapevolmente. Ciò però non annulla la responsabilità e l’imputabilità di ciò che si fa. Bisogna distinguere l’ignoranza dovuta ad una vera e propria incapacità di intendere e di volere da una ignoranza dovuta al non conoscere ciò che si ha l’obbligo di conoscere. La maggior parte dell’ignoranza umana rientra nella seconda categoria. L’uomo molto spesso sceglie deliberatamente di non usare la ragione perché le verità mediate dalla ragione costano fatica, mentre ciò che è immediatamente evidente non costa nessuna fatica. L’uomo però non può accontentarsi di ciò che è immediatamente evidente, perché, come si è detto in altri post, non dispone di un istinto e i suoi sensi sono molto spesso meno acuti di quelli di molti altri animali. Pertanto l’uomo deve usare la ragione non solo per conoscere la verità ma, anche e soprattutto, per essere uomo. Senza l’intelletto rimane quel sentimentalismo vuoto, falso e fine a se stesso, che oggi purtroppo domina e ubriaca le coscienze. 

Prima sono stati citati alcuni esempi di relazioni familiari disfunzionali. Di tutte le disfunzioni ce n’è una in particolare che espone al trauma dell’abbandono: il rifiuto affettivo. Tutti quei comportamenti che mandano all’altro il messaggio “non ti voglio”. Anche carezze non date possono trasmettere questo messaggio. Prendiamo una madre che non accarezza mai il suo bambino, non lo abbraccia, non mostra manifestazioni di tenerezza; questo bambino riceverà il messaggio di non essere voluto. Ed è così effettivamente, perché se l’amore c’è si deve vedere; se non si vede vuol dire che non c’è. Sia chiaro: a volte non abbiamo il desiderio di stare con i nostri cari, perché siamo esseri umani siamo imperfetti, o semplicemente perché vogliamo stare da soli. Non dobbiamo cercare una perfezione che non esiste, ma dobbiamo chiederci se nel complesso prevale il desiderio di stare con i nostri cari. Se invece prevale il desiderio di fuggire da loro dobbiamo, senza moralismi, approfondire il motivo. Non bisogna fermarsi al sentimento. Il sentimento è l’epifenomeno non l’epicentro delle relazioni. Ciò che caratterizza una relazione è il camminare nella stessa direzione. Se manca un cammino comune non c’è una relazione nel significato più profondo. Ci può essere una convivenza, il condividere lo stesso tetto o lo stesso luogo di lavoro, ma non è sufficiente questa convivenza per dire che ci sono anche delle relazioni. L’amore non si alimenta con le dimostrazioni di affetto spicciole, queste vanno bene quando si è piccoli, poi ci vuole ben altro. L’amore si alimenta con l’assunzione di nuove responsabilità. Molte coppie hanno smesso di camminare insieme perché si sono bloccate di fronte ad una nuova responsabilità; ad esempio, un partner o entrambi si sono tirati indietro all’idea di sposarsi o di avere un figlio. Oppure sono stati fatti questi passi senza una piena consapevolezza delle responsabilità che comportavano. Quindi, vale per la coppia ciò che vale anche per il singolo, così come un uomo di quarant’anni non può pensare di avere le stesse responsabilità di un ventenne, così anche le coppie che stanno insieme da molti anni non possono pensare, ragionare, comportarsi come le coppie che stanno insieme da poco tempo. Bisogna correre il rischio di camminare insieme assumendosi, quando i tempi sono maturi, sempre nuove responsabilità; se non lo si fa, l’amore si spegne, e prevale quella cosa terribile e mortifera che si chiama abitudine. 

Concludiamo questo post con una riflessione finale.

Non basta prendere consapevolezza dei traumi di abbandono vissuti nell’infanzia ad opera di genitori o di adulti trascuranti. Non è sufficiente prender consapevolezza del male che ci hanno fatto gli altri. Un certo psicologismo a buon mercato oggi sta alimentando nelle coscienze la convinzione che la nostra esistenza si esaurisca nell’essere vittime di qualcuno o di qualcosa. Vittime di genitori sbagliati, di politici egoisti, del narcisista o manipolatore di turno, della cultura patriarcale, ecc. A volte effettivamente subiamo delle ingiustizie, non riceviamo amore da chi dovrebbe darcelo, ma l’amore dobbiamo anche darlo e non solo prenderlo. Quindi la prima cura per la ferita di abbandono è non far vivere agli altri l’abbandono che abbiamo vissuto noi; è impegnarsi in relazioni esclusive, dove l’altra persona non è intercambiabile (devo questo concetto illuminante di relazioni esclusive alle conferenze del sacerdote e filosofo italiano Don Luigi Maria Epicoco). Se inizio una relazione con una donna, devo impegnarmi a chiudere la porta a tutte le altre donne. Se inizio una professione devo impegnarmi a chiudere la porta a tutte le altre professioni. Se inizio un’amicizia devo tutelare l’unicità di quell’amicizia. Poi certo nella vita le strade possono dividersi, ma deve essere la vita ad operare le separazioni non la mia incapacità di fare delle scelte ed accettare le inevitabili rinunce che ogni scelta comporta. La vita a volte mi chiede persino di assumermi la responsabilità di ciò che non ho scelto; se non sono disposto nemmeno ad assumermi la responsabilità di ciò che ho scelto, vivrò la vita in perenne fuga.

Nelle terapie psicologiche portiamo spesso il “bambino interiore”, quel bambino che ha bisogno di essere ascoltato, accudito, protetto, che ha bisogno di giocare, di divertirsi. Ognuno di noi si porta dentro un bambino interiore. È importante sforzarsi di ascoltarlo e cercare di non reprimerlo, ma gli stessi sforzi devono essere impiegati anche per far crescere un adulto responsabile. Bisogna mantenere sulla vita quello sguardo di stupore di un bambino e allo stesso tempo assumersi le responsabilità di un adulto. 

domenica 14 settembre 2025

Il tramonto della famiglia

Nel post precedente ho cercato di dire qualcosa sulla natura dell’uomo il quale, a differenza di tutti gli altri animali, non dispone di un istinto che lo faccia agire con prontezza secondo la sua natura. È anche difficile definire chiaramente la natura dell’uomo. Sempre nel post precedente si è detto che l’uomo è caratterizzato da un intelletto, adesso aggiungiamo che l’uomo è un animale sociale. Le aggregazioni sociali sopperiscono alla mancanza di un principio interiore stabile che guidi l’uomo ad agire secondo la sua natura. L’uomo ha bisogno più di qualsiasi altro animale di formare gruppi sociali, non solo per veder soddisfatti i suoi bisogni di sopravvivenza ma anche per ricevere modelli antropologici a partire dai quali plasmare la sua natura. 

Il primo gruppo sociale nel quale l’uomo muove i suoi primi passi è senz’altro la famiglia. 

Fino a qualche decennio fa la famiglia era ben definita attorno agli assi padre-madre, genitori-figli; a partire da questi assi era chiaro che cosa significasse essere uomo ed essere donna, essere padre, essere madre ed essere figlio. Non che fossero famiglie idilliache, prive di tensioni o conflitti. Ma erano tensioni che si sviluppavano attorno agli assi ben definiti di uomo-donna, maschile-femminile, paterno-materno, genitore-figlio, come poli dialettici dell’esistenza: la vita era un tentativo di trovare una sintesi tra questi poli. Era come quel famoso gioco della fune dove due squadre contrapposte tirano una corda in direzione contraria. Oggi invece è come se la corda fosse per terra e non venisse più tirata. Non ci sono tensioni dialettiche: uomo-donna, padre-madre, genitore-figlio oggi sono dei contenitori vuoti che non offrono più coordinate per orientare l’esistenza. Anche la stessa psicologia, adattandosi ai tempi, ha smesso di utilizzare questi assi come chiavi interpretative dei disagi psicologici. Sembrano passati millenni da quando Freud utilizzò le dinamiche padre-madre-bambino per interpretare le nevrosi. Lo psicoanalista Massimo Recalcati sostiene che viviamo nel tempo dell’assenza del padre, ma a mio modesto avviso è scomparsa l’intera famiglia.

Questo post sarà un tentativo di andare a ritrovare la famiglia usando la bussola della psicoanalisi freudiana insieme con la dialettica hegeliana. 

Partiamo dal nucleo familiare di base composto da madre-padre-figlio. Come è noto il concepimento è frutto dell’incontro tra la cellula sessuale femminile e quella maschile. Una volta avvenuto il concepimento, il corpo della madre assume per il bambino un’importanza capitale. Se l’unità fisica madre-bambino si rompe prematuramente, o per un aborto o per il decesso della madre, gli effetti sulla nuova vita sono letali. È bene non separare troppo la biologia dalla cultura perché questa unità madre/bambino fornisce un imprinting esistenziale che ci portiamo dietro per tutta la vita: madre comporta il significato di due persone che diventano una cosa sola. Il bisogno di diventare una cosa sola con un’altra persona lo manteniamo per tutta la vita. La sessualità umana assolve a questa funzione: prima ancora della riproduzione e del piacere sessuale, la sessualità ha come fine quello di costruire un’unità fisica con un’altra persona. Questa unità è alla base della vita. Per questo la sessualità, quando è sana, si mantiene in equilibrio tra la componente femminile della ricerca dell’unità e la componente maschile della ricerca del piacere sessuale. Ma la ricerca dell’unità è più importante della ricerca del piacere sessuale; le coppie anziane che si amano continuano infatti a mantenere una vita sessuale, sebbene il piacere sessuale possa perdere il vigore della giovinezza. Quindi nella metafora del tiro alla fune, la corda deve essere leggermente più tirata verso la componente femminile, senza però che venga meno la tensione maschile. Se la componente maschile e femminile della sessualità si disgiungono si svilisce la dignità umana: se nell’unione fisica tra due persone manca il piacere reciproco non si può parlare più di sessualità ma di violenza; allo stesso modo, se c’è solo il piacere ma è assente la ricerca dell’unità, non si può più parlare di sessualità ma di mercificazione del corpo, proprio e altrui. Oggi la sessualità viene vissuta, anche dalle donne, con uno sbilanciamento eccessivo verso la componente maschile della ricerca del piacere sessuale a discapito della ricerca (femminile) dell’unità. Questo comporta uno svilimento della dignità dell’uomo e della donna, in quanto il piacere sessuale viene messo al servizio di pratiche che sviliscono la dignità dell’essere umano, ridotto ad oggetto di consumo sessuale.

Se prendiamo in prestito la dialettica hegeliana, possiamo dire che femminile e maschile sono l’uno la tesi e l’altro l’antitesi. Se la tesi (femminile) è formare un’unità tra due persone, l’antitesi (maschile) è rompere questa unità. Si badi: la tesi può esserci solo se c’è l’antitesi, e viceversa. 

Il padre, come teorizza Freud con il complesso di Edipo, introduce ad un certo punto un elemento che rompe la diade unitaria madre-bambino: la legge morale. C’è un momento opportuno in cui introdurre la legge morale, Freud lo fa coincidere all’incirca intorno all’età di 4 anni del bambino. Non importa stabilire l’età precisa, anche perché un complesso di Edipo da risolvere è presente in tutte le fasi evolutivamente critiche della vita. Anche la stessa morte presumibilmente fornirà un complesso di Edipo da risolvere. Non che la morte in sé stessa sia un complesso di Edipo: ho già detto nel post precedente che la morte per l’uomo non è intelligibile, qualsiasi tentativo di comprenderla e di spiegarla si risolve quasi in un insulto. Lo stesso Figlio di Dio, Gesù, rimane in silenzio davanti al mistero della morte, non ne fornisce nessuna spiegazione. Della morte possiamo solo dire che essa è l’ultimo e il più grande snodo evolutivo che l’uomo deve affrontare, e siccome per l’uomo è intelligibile solo la vita,  ci sarà anche in punto di morte ancora qualcosa di vitale da affrontare. 

Adesso è necessario soffermarsi un poco sulla teoria freudiana. Freud sostiene che il rapporto madre-bambino - qui nessuno si scandalizzi - è caratterizzato da una tensione sessuale; d’altra parte se non ci fosse una tensione sessuale non si spiegherebbe perché è necessario introdurre ad un certo punto una legge morale. Freud ha analizzato questa tensione sessuale solo sul versante del bambino, ma questa tensione sessuale è in un certo senso accolta dalla madre. Questa unione fisica madre-bambino nell’allattamento è senz’altro piacevole per il bambino; Freud parla al riguardo di pulsione orale, ovvero la tensione sessuale nel bambino allo stadio dell’allattamento è localizzata nella bocca. Ma l’allattamento deve essere piacevole anche per la madre, questo Freud non lo dice, ma lo possiamo aggiungere noi. Se la madre non provasse piacere nell’allattare il bambino vivrebbe l’allattamento come una violenza su di lei, con conseguenze serie nella relazione con il figlio. Nei corsi di accompagnamento alla nascita infatti si insegnano alle future mamme le posizioni migliori per allattare, affinché l’allattamento non comporti dolore per la mamma. Non deve esserci dolore, l’allattamento deve essere piacevole sia per il bambino che per la mamma. Ed il ruolo del padre in questa fase? Il padre deve tutelare questa unità, quindi in un certo senso deve essere materno anche lui. Anche la società deve tutelare l’unità madre-bambino.

La chiusura dei punti nascita in Italia nel periodo dell’austerità ha rappresentato un regresso di civiltà. Una civiltà si vede in primis da come tratta madri e bambini. 

Quand’è che il padre fa davvero il padre inserendo la prima disgiunzione nella relazione madre-bambino? Secondo Freud intorno ai 3-4 anni. A questa età per la prima volta il piacere fisico nel bambino coinvolge i genitali. Si capisce quindi la necessità di inserire un imperativo morale per evitare l’incesto e, allo stesso tempo, per favorire l’autonomia del bambino: noli tangere matrem, non toccare la madre, si sente ingiungere il bambino dal padre. Ecco il complesso di Edipo. Si chiama complesso perché non è un passaggio facile per il bambino, che non riesce a spiegarsi come mai ora non gli è più concesso ciò che fino a prima non solo gli era concesso ma addirittura tutelato. Il bambino non ha gli strumenti cognitivi per comprendere questi processi, può solo accettare l’autorità del padre. Per questo è necessario che il padre in questa fase intervenga (moralmente) solo per lo stretto necessario ad evitare un coinvolgimento genitale nel rapporto madre-bambino. Quindi, con tatto e delicatezza il padre inizia a trasmettere al bambino un senso di pudore e di rispetto nei confronti del corpo della madre. Al bambino ad esempio non è più concesso osservare le nudità della madre, il seno della madre viene celato, non sono più concessi certi contatti fisici. Questo senso di rispetto del corpo della madre sarà poi la base per il rispetto del corpo di tutte le altre donne.

Oggi si discute molto della violenza sulle donne, ma non ci si rende conto che una società che fa della libertà sessuale la misura della propria civiltà è intrinsecamente misogina, in quanto nell’uomo la forza sessuale è maggiore che nella donna. Non è la cultura patriarcale ad essere responsabile della violenza sulle donne, ma l’assenza di qualsiasi argine morale alla sessualità.

Torniamo a Freud per concludere il tema del complesso di Edipo. Freud ha analizzato il complesso di Edipo solo dal lato del bambino, dando per scontato che la madre non avesse difficoltà a staccarsi dal figlio. Può darsi che al suo tempo fosse davvero così, oggi però non possiamo darlo più per scontato. È necessario, quando i tempi sono maturi, non solo allontanare (nel senso di creare delle barriere) il figlio dal corpo della madre, ma anche la madre dal corpo del figlio, per evitare che questo venga reso preda di ambizioni frustrate, di problematiche psichiche non risolte della madre. Va precisato che buona parte di questi processi avvengono inconsapevolmente, ma l’inconsapevolezza non riduce la gravità di certi atti. Si sa, la strada che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni. La totale assenza di pudore con cui noi oggi esibiamo i nostri corpi, la violenza che esercitiamo sui nostri corpi, e talvolta, purtroppo, anche sui corpi degli altri, lascia supporre che molte cose nel nostro sviluppo non sia andate come dovevano andare.

Niente è perduto comunque. La vita offre una seconda occasione per affrontare e risolvere ciò che non abbiamo risolto. Se però sbagliare è umano, perseverare è diabolico.

Ridurre tutto il rapporto madre-figlio ad una tensione sessuale da arginare sarebbe troppo riduzionistico e lontano dal vero. Ci sono altri aspetti che caratterizzano questo rapporto: la tenerezza della madre verso il bambino e la sua aggressività verso qualsiasi cosa rappresenti una minaccia all’incolumità del bambino. L’aggressività maschile invece è più competitiva, è finalizzata a preservare l’onore, il prestigio, il potere. Anche in questo caso una società competitiva come la nostra danneggia le donne. Le donne vengono costrette ad andare sul campo dell’uomo per vedersi socialmente riconosciute. La nostra società non riconosce nessuna specificità alla donna: la donna deve essere come l’uomo. Competitiva come l’uomo, aggressiva come l’uomo. L’emancipazione femminile si misura con questo metro. Ricordiamo che qualche anno fa il calcio femminile veniva sbandierato da tv, giornali e società calcistiche come l’emblema dell’emancipazione femminile. 

Penso di essere riuscito a trovare qualche traccia della famiglia. Il lavoro sarà lungo…per il momento possiamo fermarci qui.


venerdì 12 settembre 2025

La natura umana

Per aiutare (psicologicamente) un essere umano bisogna prima avere una chiara concezione dell’uomo, per evitare di essere come quei ciechi che guidano altri ciechi. Oggi la psicologia si è parcellizzata nello studio di aspetti mentali particolari (pensiero, inconscio, desideri, emozioni, immaginazione, ecc.) ma ha perso una visione d’insieme dell’uomo, una concezione dell’uomo. Che cosa significa essere un uomo? L’uomo è un animale? Se sì, in che cosa si differenzia dagli altri animali? 

Se non abbiamo una visione d’insieme dell’uomo rischiamo di ipostatizzare le funzioni psichiche, cioè rischiamo di considerare reale ciò che invece non lo è affatto. Nella realtà non incontriamo mai un pensiero, un’emozione, un desiderio; incontriamo esseri umani che pensano, che desiderano, che si emozionano. Qui è evidente la confusione con la medicina. In medicina se una persona subisce l’amputazione di un arto, quell’arto rimane reale anche se staccato dal resto del corpo. In psicologia al contrario non esiste un’emozione o un pensiero separati dall’uomo nella sua interezza.

A creare confusione si aggiungono anche certe frasi che usiamo frequentemente senza fermarci a riflettere sulla loro veridicità. Ad es., spesso si sente dire “gli uomini passano le idee restano”. Questa frase è falsa, resta ciò che un uomo ha fatto. Di molti filosofi non ricordiamo più il loro pensiero, perché la loro filosofia era fatua e, come tale, non ha inciso per nulla sulla realtà. Al contrario, nessuno dimenticherà mai l’esempio dei giudici Falcone e Borsellino, perché non hanno solo teorizzato la giustizia, ne sono stati un esempio vivente. La loro filosofia di giustizia era incarnata, sono stati uomini e giudici giusti fino al punto di pagare con la vita il loro amore per la giustizia. Le idee rimangono se le vediamo incarnate in un essere umano che ci fornisce un esempio di vita. Quindi rispetto alla frase da cui siamo partiti è vero l’esatto contrario: le idee passano, gli uomini restano!

L'uomo è un animale? Sì, ma un animale unico. L'unico animale capace di conoscenza intellettuale. Condivide con gli altri animali la conoscenza sensitiva, quella che deriva dai sensi. Gli animali sono spesso superiori all'uomo nella conoscenza sensitiva ad es., la vista e l'olfatto di una lince sono di gran lunga superiore alla vista e all'olfatto dell'uomo. Ma gli animali non sono capaci di rappresentarsi la realtà in concetti o idee. Per questo motivo non parlano.

Ho detto non parlano, non ho detto che non comunicano. Chiunque convive con un animale domestico sa bene che gli animali sanno comunicare, e anche molto bene. Talvolta anche meglio dell'uomo. Questo è uno dei motivi per cui spesso preferiamo la compagnia degli animali a quella degli esseri umani. L'altro motivo è che, essendo la loro natura più compiuta della nostra (come cercherò di spiegare a breve), la loro capacità di amare è pura e genuina. Non conoscono l'odio ed il rancore.

In ogni caso gli animali non parlano, pertanto vediamo la differenza tra parlare e comunicare, erroneamente considerati sinonimi. 

Noi comunichiamo tutte le volte in cui vogliamo ottenere qualcosa o vogliamo che gli altri facciano qualcosa per noi. Il bambino sa comunicare molto prima che abbia maturato la capacità linguistica. Perciò per imparare a comunicare non è necessario fare costosi corsi sulla comunicazione, basta osservare attentamente gli animali e i bambini.

 Il linguaggio invece è una capacità esclusivamente umana attraverso cui esprimiamo idee o concetti. I concetti sono i termini mentali con i quali ci rappresentiamo e conosciamo la realtà; sono il modo con cui possiamo conoscere la realtà al di là di ciò che è immediatamente evidente ai sensi. Se bevo un bicchiere d'acqua ghiacciata, non ho bisogno né dell'intelletto né del linguaggio per accorgermi che l'acqua è fredda, mentre se voglio conoscere la composizione chimica dell'acqua ho bisogno dell'intelletto e del linguaggio. Qui sta la differenza tra l'uomo e l'animale: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.

Dalla conoscenza dipende un'altra capacità: la volontà. In ambito giuridico queste due capacità vengono accorpate in un'unica sola, la capacità di intendere e di volere. Non che il volere sia la diretta conseguenza della conoscenza. Negli animali il volere è suscitato dalla conoscenza sensitiva (ad es., la vista di una preda da parte di un felino) e da una cosa che potremmo chiamare istinto. L'istinto è una sorta di intelligenza intrinseca all'animale che lo muove ad agire con prontezza, con immediatezza, in sintonia con la sua natura. Non sappiamo bene che cosa sia l'istinto ma è certo che l'uomo non lo possieda. Ogni volta che noi uomini dobbiamo prendere delle decisioni dobbiamo ponderare tanti fattori, non abbiamo un istinto che ci dica con certezza quello che va fatto. Non che i comportamenti degli animali siano privi di errori, ma anche quando sbaglia l'animale è a suo agio con la sua natura, non passa le giornate a rimuginare e a rimproverarsi; il gatto non rimprovera il Creatore di non averlo fatto leone, l'ape non si chiede perché è nata ape e non mosca. Ogni animale sa il posto che gli compete nel creato. Non così per l'uomo. Per questo la natura degli animali è più compiuta di quella degli uomini. L'uomo si vanta di essere al vertice della catena evolutiva, in realtà è al vertice di una piramide rovesciata. 

"Se l'anima dell'uomo non fosse immortale, l'uomo sarebbe il più infelice degli animali", diceva il filosofo greco Plotino. La natura umana così come ci è data è molto lontana dal potersi considerare compiuta. Per questo l'uomo non si acquieta mai, non è mai soddisfatto, del matrimonio, del lavoro, della vita, degli obiettivi che ha raggiunto. 

Quindi che si fa? Ci rassegniamo all'incompiutezza?

No. Questo è quello che fanno i filosofi esistenzialisti. Lasciano l'uomo impantanato nella caducità dell'esistenza. Sia chiaro: la caducità dell'esistenza è reale non l'hanno inventata gli esistenzialisti. I filosofi esistenzialisti però non offrono soluzioni anzi, si spingono persino oltre pretendendo che l'uomo possano rappresentarsi l'essere in rapporto alla morte; ricordiamo il concetto di "essere-per-la-morte" ed il saggio "L'Essere ed il Nulla" di Heidegger. Per l'uomo la morte non è intelligibile, non può essere in nessun modo rappresentata o conosciuta; qualsiasi tentativo di spiegarla diventa un insulto soprattutto per chi ne viene toccato. Da qui quell'antipatia quasi istintiva che suscitano gli scritti dei filosofi esistenzialisti. Questo non significa che la morte debba essere negata - tutti moriremo prima o poi, è evidente - ma non può essere usata come termine per allargare la conoscenza di sé. La morte può essere accettata, ma in nessun modo spiegata, compresa o conosciuta. Può essere accettata solo quando la si vive, non prima, perché l'intelletto umano non è capace di nessuna rappresentazione anticipatoria della morte. Per questo motivo la cosa peggiore che si possa fare ad una persona che soffre è spiegargli la sofferenza. L'uomo è fatto per la gioia e per la vita, non per il dolore e per la morte, anche se dolore e morte fanno parte dell'esistenza.

L'intelletto umano concepisce solo la vita. Noi agiamo, ci comportiamo, pianifichiamo come se dovessimo vivere in eterno. Vorremmo che le cose belle non finissero mai, ci promettiamo amore eterno, cerchiamo in tutti i modi di rallentare l'invecchiamento del corpo. La vita è l'unica condizione concepibile dall'uomo. Si comprende meglio ora il significato della frase di Plotino citata prima. E se la filosofia può sembrare troppo astrusa, ascoltiamo i cantanti... 




     


mercoledì 10 settembre 2025

Overdose di psicoterapie

Questo è un post che può apparire in controtendenza rispetto alla situazione attuale che vede sempre più in crescita la domanda di psicoterapia a fronte di una non soddisfacente offerta pubblica, soprattutto per i ceti a basso reddito che non hanno le necessarie risorse economiche per rivolgersi ad uno psicoterapeuta privato. Ci tengo quindi subito a precisare che in nessun caso intendo banalizzare il disagio psicologico sempre più diffuso e pervasivo nella nostra società ed il legittimo bisogno che tale disagio sia accolto ed ascoltato da noi psicologi. Mi chiedo però se siamo sempre in grado di rispondere con competenza all’enorme mole di umanità ferita che bussa, o prova a bussare, alle nostre porte.

Ormai per tutto ciò che afferisce all’interiorità e alla soggettività umana, nelle loro varie manifestazioni, c’è sempre qualche professionista “psi” che, in tv o sui social, ha, o presume di avere, la ricetta giusta: per tutta la psicopatologia, per la devianza giovanile, per gli atti criminali, per le relazioni malate, per le problematiche lavorative, per il clima aziendale, il mobbing, il burnout, e poi ancora, la genitorialità, l’educazione, la comunicazione, le dinamiche di gruppo, lo stress e  la resilienza, l’autorealizzazione, la crescita personale…l’elenco potrebbe proseguire all’infinito. Non c’è più un angolo della soggettività umana sul quale non si esprima un qualche esperto “psi”. Credo che dovremmo invece sottoporci ad un serio esame di realtà ed iniziare a fare un discernimento su quali siano i quesiti a cui, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, la psicologia può rispondere e quali invece a cui non può dare risposte. Dovremmo farlo per il bene della psicologia, di tanti colleghi che fanno questa professione con serietà e competenza, e di chi cerca risposte nella psicologia, poiché nessuna scienza è onnipotente, tantomeno discipline relativamente giovani come sono le discipline “psi”. 


Ma andiamo con ordine. Quando è nata la psicoterapia?


Da sempre l’uomo deve fare i conti con una cosa dolorosa, imprevista ed inaspettata che ad un certo momento irrompe nella sua esistenza e ne scombina i piani: la sofferenza! Non che l’angoscia sia la caratteristica totalizzante ed assoluta dell’esistenza umana (come ritenevano i filosofi esistenzialisti del novecento), la sofferenza non è l’Assoluto, ma qualcosa di spiacevole, imprevisto ed inaspettato con cui prima o poi ogni essere umano deve fare i conti. Sin dall’antichità l’uomo ha cercato dei modi non solo per alleviarla, ma per rappresentarla, simbolizzarla, addomesticarla. La mitologia degli antichi greci, ad esempio, rispondeva a questa necessità; se il mio dolore è causato da un capriccio di Afrodite posso, seppure nella sofferenza, mettermi l’anima in pace: quale essere umano può competere con una divinità? Che colpa ho io se le divinità sono capricciose e volubili? È meglio lasciar perdere e aspettare che ritornino i loro favori. Qualcosa di simile accade oggi con il moderno oroscopo. 


Quindi l’uomo, poiché deve fare i conti con la sofferenza, con l’angoscia, con i rovesci di fortuna, non può fare a meno della psicoterapia. Così  è dalla notte dei tempi. Tuttavia oggi fortunatamente la psicoterapia non la si fa rivolgendosi agli oracoli o agli oroscopi, perché da qualche decennio essa è un’attività formalmente riconosciuta come specializzazione delle professioni dello psicologo e del medico. 


Quindi sorge un’ulteriore domanda: quando la psicoterapia ha preso le forme più definite di una moderna attività sanitaria per il trattamento dei disturbi mentali?


La risposta è senza altro a cavallo tra ottocento e novecento con Freud e la sua psicoanalisi. A Freud si può attribuire anche la nascita della psicologia clinica come disciplina autonoma rispetto alla medicina, poiché è stato il primo ad applicare la psicologia allo studio e alla cura dei disturbi mentali. Prima di lui tutte le malattie erano curate con i metodi tipici della medicina, cioè con metodi finalizzati a riparare organi del corpo umano, nel caso delle malattie mentali, aree del cervello mal funzionanti o supposte tali. Freud fu il primo a rivolgersi non ad un cervello da riparare ma alla persona nella sua totalità, ascoltandola e cercando di comprenderne la psicologia. Giova ricordare che Freud era un medico e questa frattura all’interno della medicina gli costò l’isolamento da parte del mondo accademico, per via di quel conformismo che l’essere umano mostra quando teme di perdere posizioni di potere o di diritto acquisite. Nessun animale è pericolosamente conformista come l’uomo quando si sente colpito in diritti che ritiene di aver acquisito.

Altro aspetto che giova ricordare: Freud non ritenne che tutta la psicopatologia fosse curabile col nuovo metodo psicoanalitico, ma solo alcuni disturbi psichici, le nevrosi, caratterizzate da sintomi psicologici come conseguenza della rimozione di conflitti inaccettabili (se ne è parlato nel post precedente), in personalità che per altri versi erano integre. Sappiamo anche noi oggi fare lo stesso atto di chiarezza scientifica e di onestà deontologica? Nel mare magnum della proliferazione delle scuole e degli approcci di psicoterapia, come comunità scientifica sappiamo dire con chiarezza quali alterazioni psichiche siamo in grado di curare e quali invece non possiamo curare? A distanza di poco più di un secolo dalla sua nascita la moderna psicoterapia ha raggiunto un tale progresso scientifico che le permette di curare tutta la psicopatologia? In così poco tempo la psicologia clinica ha raggiunto un tale progresso scientifico che non si riscontra nemmeno in medicina, disciplina la cui più lunga tradizione scientifica non le permette ancora di curare tutte le malattie?

Premesse sulla psicologia

 Dopo aver evidenziato nel primo post di questo blog alcune premesse necessarie su "scienza" e "ragione", si rende opportuno fare delle precisazioni introduttive sulle basi su cui poggia la psicologia come scienza che studia le strutture mentali, ovvero tutte quelle attività mentali che caratterizzano soggettivamente l’uomo come, pensare, valutare, desiderare, emozionarsi e i comportamenti che ne conseguono. 

La psicologia è una disciplina relativamente giovane, da poco entrata nel rango delle professioni sanitarie, ma a differenza delle altre professioni sanitarie (la medicina, ad es.) non può applicare le cosiddette scienze "dure" (come la biologia) per la diagnosi e la cura delle malattie mentali. Si ricorda che le scienze dure sono le scienze alle quali è applicabile il metodo scientifico moderno, quello galileiano, che quantifica i fenomeni servendosi della matematica e li riproduce in laboratorio. Questo metodo è applicabile ai corpi e alla materia; non è applicabile invece a ciò che per sua natura è incorporeo come la psiche. Sarebbe più corretto dire che la psiche è per sua natura spirituale, ma nella nostra epoca il termine spirituale è diventato sinonimo di irreale in contrapposizione a ciò che è materiale che è invece sinonimo di reale. Pertanto il termine spirituale è inutilizzabile oggi nelle discipline scientifiche che allargano la conoscenza solo di ciò che è reale. Chi scrive non condivide affatto l'assunto che sia reale solo ciò che è materiale: l'amore ad esempio è una "forza" spirituale, e in quanto tale non può essere quantificata e studiata in laboratorio come si fa con la forza di gravità ma, nonostante ciò, l'amore è assolutamente reale. Ognuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita l'esperienza di sentirsi o non sentirsi amato e sa bene come questa esperienza nel bene e nel male incida sulla propria esistenza molto più delle forze studiate dalla fisica. 

Ultimamente si sta assistendo ad un avvicinamento tra psicoterapia (nel prossimo post parlerò più dettagliatamente della psicoterapia) e neuroscienze. Sicuramente la conoscenza dei network cerebrali alterati nelle psicopatologie offre informazioni che possono essere integrate in un percorso di psicoterapia ma, ancora una volta, il corpus di conoscenze offerto dalle neuroscienze è pienamente applicabile solo dalla scienza medica, che ha per oggetto le alterazioni del corpo umano. Allo psicologo interessa relativamente poco sapere come funziona un organo del corpo umano, sia esso l'organo necessario alla psiche per funzionare, come il cervello; così come al linguista interessa relativamente poco conoscere l'area del cervello che insieme all'apparato muscolo-scheletrico permette all'uomo di parlare, perché sia la natura della psiche sia la natura del linguaggio non possono essere ridotti al funzionamento di specifici organi del corpo umano. 

Allo psicologo interessa sapere come funziona l'uomo nella sua totalità, che cosa lo fa soffrire e cosa lo rende felice. Non si possono ottenere queste conoscenze limitandosi a studiare il funzionamento del corpo umano. E, d'altra parte, solamente quando lo psicologo possiede queste conoscenze e riesce a tradurle in un sapere tecnico può essere in grado di alleviare le sofferenze psicologiche delle persone ed aiutarle ad essere felici. 

A quale disciplina allora la psicologia deve rivolgersi per acquisire un tale sapere? Ad una disciplina che oggi non gode di buona fama ma di cui lo psicologo (al pari di qualsiasi altro essere umano) non può fare a meno: ovvero la filosofia e le sue articolazioni come, metafisica, logica filosofica, filosofia della natura, filosofia morale, psicologia filosofica, filosofia del linguaggio, ecc. Approfondire tale sapere non comporta un allontanamento della psicologia dall'ambito scientifico (anche la filosofia è una scienza rigorosa) e dalla sfera sanitaria (la moderna psicologia, in particolare la psicologia clinica, nasce da una costola della medicina, come esporrò meglio nel prossimo post), ma significa riconoscere la specificità della psicologia come scienza umana e non costringerla a rincorrere saperi che non le appartengono. 

Illustrerò brevemente perché la psicologia non può fare a meno della filosofia, ad esempio della filosofia morale. Ogni essere umano prende nell'arco della giornata diverse decisioni, se la decisione è stata preceduta da una valutazione su ciò che è giusto o non è giusto fare al di là del proprio interesse immediato vuol dire che è stata fatta una valutazione morale ed il comportamento che ne consegue rientra nella sfera dell'etica. Facciamo un esempio banale di una persona che a seguito di analisi del sangue riscontra valori alti di trigliceridi e decide di conseguenza di non mangiare cioccolata pur essendone attratta, tale persona ha fatto una valutazione morale: ha deciso che la salute è un valore e per tale valore mette da parte il piacere immediato che deriva dal consumo di cioccolato. 

L'uomo non può fare a meno di una componente morale e di una disciplina (sia scientifica che pratica) che lo aiuti a svilupparla, e lo psicologo non può non studiare e approfondire tale disciplina. Ricordo che per Freud il complesso di Edipo nasce quando il padre introduce una legge morale nel rapporto madre-bambino; legge morale che ha l’obiettivo di tutelare il rapporto madre-bambino evitandone l’incesto. Non solo l’incesto consumato ma anche il clima incestuoso, che oggi purtroppo serpeggia in molte famiglie. Purtroppo una narrazione molto superficiale della psicoanalisi freudiana proveniente dalla cultura sessantottina ha identificato nella legge morale paterna la causa dei disagi psichici. 

Quindi è opportuno fare chiarezza al riguardo. 

Freud ha teorizzato l’esistenza di tre strutture psichiche: una struttura morale che vieta (Super-Io); una struttura che vuole il piacere immediato (Es); ed una struttura che deve trovare una mediazione (Io). Tra queste strutture, soprattutto tra l’Es ed il Super-Io, inevitabilmente insorge un conflitto. A causare le nevrosi, secondo Freud, non era tanto l’intransigenza del Super-Io, ma la non consapevolezza da parte del paziente del conflitto tra le sue strutture psichiche. E perché il paziente aveva necessità di rimuovere il conflitto? Perché dietro tale conflitto si celava una verità scandalosa: il paziente da bambino aveva nutrito desideri sessuali incestuosi nei confronti della madre. Oggi vedendo lo stato in cui versano le famiglie possiamo completare questa verità con un elemento ancora più scandaloso: in assenza di una legge morale paterna i desideri sessuali incestuosi del bambino vengono ricambiati dalla madre. Questo non comporta necessariamente un incesto consumato, che è raro, ma comporta quel clima incestuoso che lo psicoanalista francese Paul Racamier ha lucidamente messo in luce nel libro “Incesto e Incestuale” e che è l’impietosa fotografia della famiglia odierna. Quando il padre abdica, scompare anche la tenerezza materna, e subentra un’inquietante perversione morale: i genitori si appropriano narcisisticamente della psiche e del corpo dei figli.

Chiudiamo questa breccia sugli abissi del male.

Nonostante viviamo in un’epoca che discredita tutto ciò che ha a che fare con la morale, l’uomo non può fare a meno di essere guidato da principi etici poiché se segue solo il principio di piacere si condanna al suicidio, in quanto a differenza degli altri animali non può far affidamento sull'istinto. Se agitiamo davanti ad un gatto un oggetto simulando il movimento di una possibile preda, il gatto non può fare a meno di rincorrerlo perché questo comportamento gli è imposto dalla sua natura. Non è così per l'uomo, non ci sono in lui istinti che lo predeterminano a comportarsi in una determinata maniera, l'uomo è libero di scegliere come comportarsi; non si tratta certamente di una libertà assoluta, si tratta di una libertà limitata sottoposta a molti condizionamenti, ma non è presente nella natura dell'uomo una necessità incoercibile a comportarsi in un determinato modo. Per questo motivo l'uomo è l'unico animale giuridicamente imputabile

Premesse su scienza e filosofia

 

In un mondo che ha inflazionato parole come "scienza" e "ragione" usandole molto spesso impropriamente, è opportuno fare alcune premesse (certamente non esaustive!) sull'uomo e sulla conoscenza umana. Queste premesse sono necessarie per qualsiasi divulgazione scientifica, e sono necessarie soprattutto in un'epoca che usa gli enunciati (pseudo) scientifici per restringere gli spazi di libertà di espressione e, quindi, per comprimere la democrazia (che senza la libertà di opinione non può esistere). "La scienza non è democratica" diceva un noto virologo, durante la pandemia di Covid- 19, intendendo con tale frase che l'uomo comune non può dissentire da quanto formulato dagli esperti. Al contrario, l'uomo comune può mettere in discussione gli enunciati scientifici, se fa la fatica di studiare e maturare le conoscenze necessarie, in quanto ogni enunciato scientifico è suscettibile di essere rivisto, allargato o rigettato se intervengono nuove evidenze. È sempre e solo l'evidenza che conferma o smentisce una teoria scientifica e non la cattedra dalla quale viene formulata la teoria. Gli enunciati che non sono suscettibili di essere rivisti si chiamano assiomi, e solo in geometria e matematica incontriamo assiomi propriamente detti.

Devo alla filosofa italiana Sofia Vanni Rovighi buona parte degli elementi teoretici necessari all'elaborazione di queste premesse.

1.    Alla base della filosofia e di qualsiasi scienza umana c'è l'intelletto o la ragione, intesa come capacità prettamente umana di argomentare, di ragionare discorsivamente sulla realtà, di dimostrare che le cose stanno effettivamente così; pertanto, come si è già detto, è l'evidenza - e non l'autorità di chi argomenta - l'unico criterio della bontà di una teoria filosofica o scientifica.

2.    Se si eccettuano le verità rivelate da un intelletto divino - che non possono essere scientificamente controllate dall'uomo e che appartengono infatti al campo della fede e delle religioni rivelate - l'uomo dispone solo della ragione per conoscere le verità, sia quelle scientifiche in senso stretto sia quelle esistenziali (cioè quelle necessarie a realizzarsi come essere umano). Ovviamente sono possibili contatti con la realtà attraverso le emozioni, i desideri, i sogni, ecc. ma è solo la ragione (non l'emozione o il desiderio) che può esprimersi sulla verità o falsità di qualcosa. Se non si accetta questa premessa si cade nell'irrazionalismo. 

3.    Nelle prime due premesse sono state tessute in un certo senso le lodi della ragione umana, questa terza premessa invece è per affermare che la ragione umana è limitata, può conoscere solo imperfettamente e la realtà generale (filosofia) e le realtà particolari (scienze). Da questa imperfezione deriva il progresso delle conoscenze umane: solo ciò che è imperfetto infatti può progredire.

4.    Ogni uomo deve realizzarsi come essere umano, può riuscirsi o può fallire ma nessun uomo può sottrarsi a questo compito che è insito alla sua stessa natura. Per realizzarsi ha bisogno di distinguere ciò che è vero da ciò è falso. Abbiamo detto che umanamente disponiamo solo della ragione, ma si è detto allo stesso tempo che la ragione è limitata: pertanto questa premessa afferma espressamente che l'uomo non può fare a meno della religione, a dispetto di un assunto dominante in Occidente che considera la religione un retaggio di un passato ormai soppiantato dal progresso delle conoscenze scientifiche. Ovviamente non tutte le religioni sono uguali, esula dall'obiettivo di questo blog stabilire quali siano quelle vere e quelle false. Si può però affermare che il già citato criterio dell'evidenza vale anche per le religioni: deve esserci qualcosa di esistenzialmente vero: cioè qualcosa o Qualcuno che aiuti l'uomo a realizzarsi nella sua vera essenza.

5.    Quinta e ultima premessa: l’uomo può fare della scienza una religione - e in questo modo snatura sia la scienza che la religione - ma non può fare a meno né dell'una e né dell'altra. Di entrambe ha bisogno per realizzarsi come uomo, purché sia chiaro cosa compete alla scienza e cosa invece alla religione; pertanto rimane valido il moderno principio della laicità della scienza.

 

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