Proseguiamo sulla linea tracciata negli ultimi post, quella di considerare il dolore come un momento di verità in cui viene svelato - e separato dal superfluo - l'essenziale. Abbiamo visto che Gesù è accompagnato nella sua personale via crucis da alcune figure che ad uno sguardo distratto potrebbero apparire marginali perché non gli impediscono né la morte né la sofferenza. Ma in realtà non sono marginali per niente perché in quel momento il compito di quelle persone non è evitare a Gesù la sofferenza, ma permettergli di raggiungere l'obiettivo della sua vocazione, della sua personale chiamata, che è quella di essere il Figlio di Dio e che, come tutte le vocazioni, si svela solo nell'esperienza della croce, del dolore.
Piccola ma importante parentesi: bisogna fare sempre molta attenzione nel fornire spiegazioni sulla sofferenza a chi sta soffrendo. Solo in minima parte il dolore può essere compreso con il logos - cioè con la ragione umana -; che si tratti di logos teologico, filosofico, psicologico o medico, la maggior parte del dolore non può essere compreso ma può essere solo vissuto nell’amore e nella fede. In questo blog si cerca di fare logos perché la conoscenza permette di ridurre la sofferenza ed è giusto accrescerla laddove possibile, ma senza perdere di vista che quando una persona soffre ha soprattutto bisogno di sentirsi amata e di coltivare la speranza che il dolore possa finire e lasciare spazio ad una vita più alta. Speranza che scienza, teologia, filosofia, psicologia da sole non possono alimentare, perché di fronte all’esperienza della morte qualsiasi conoscenza umana deve fermarsi. Finiscono i ragionamenti. Restano solo l’amore e la fede. Restano le persone che alimentano la speranza; quelle persone che, per il fatto di esserci vicine in un momento di dolore, sono esse stesse la speranza.
Ricordiamo al riguardo il Libro di Giobbe. Quest'ultimo soffre e vorrebbe giustamente essere consolato dagli amici i quali, al contrario, si mettono a fare i teologi della sua sofferenza. Fanno persino gli avvocati di Dio perché Giobbe rimprovera apertamente il Signore per la sua sofferenza. Alla fine interviene Dio in persona a censurare il comportamento degli amici. C’è un momento in cui il logos, la conoscenza, il fornire spiegazioni sono d’impedimento alla speranza. Questo le donne solitamente lo capiscono subito e molto prima degli uomini. La vocazione, il mistero sull’interiorità di una persona non spetta a noi rivelarlo ma a Dio. Quindi c’è un momento in cui bisogna soltanto amare e far tacere il logos.
Maria, infatti, è accanto a Gesù nelle ore buie della sua passione non per ricordargli la catechesi che il Figlio stesso aveva fatto in precedenza ai suoi discepoli quando aveva detto loro che doveva soffrire molto per realizzare la sua vocazione. Non gli offre nessuna consolazione a buon mercato. Perché tale sarebbe in quel momento la teologia. Gli offre una sola cosa: la tenerezza materna. Troppo spesso dimentichiamo che Gesù è anche vero uomo e, come tutti gli uomini quando soffrono, anche lui chiede che la sofferenza gli venga tolta, o, almeno, alleggerita. Tuttavia, essendo anche vero Spirito, sa bene che per vedere realizzata la propria vocazione deve attraversare - e non evitare - la sofferenza. E a tal scopo accetta umilmente di essere aiutato nel portare la croce da una figura che nel Vangelo è di passaggio, da uno straniero: Simone di Cirene.
Simone di Cirene è, a sua insaputa, la seconda figura essenziale nelle ore terribili della passione di Gesù perché permette a quest’ultimo di portare la croce fino al Golgota e, quindi, di portare a termine la sua missione.
Sappiamo che passava di lì per una (apparente) coincidenza e che viene costretto dai soldati romani ad aiutare Gesù. A differenza di Maria che resta per amore, il Cireneo si trova lì per sbaglio ed entra nella storia della salvezza perché è costretto. Al di là delle sue intenzioni, è una figura essenziale perché permette a Gesù di rialzarsi e di non restare schiacciato sotto il peso della croce.
Questo è un rischio che tutti noi corriamo quando viviamo un dolore, il rischio cioè di restare schiacciati sotto il peso della sofferenza e non rialzarci più, il che equivale a scivolare dal punto di vista spirituale sul piano inclinato della perdizione. L'Inferno non è nient'altro che il rimanere eternamente schiacciati sotto il peso della croce. È una croce senza salvezza, un dolore senza senso. Di fronte all’esperienza della croce, cioè di fronte ad un dolore che non può essere affrontato con le sole nostre forze o si fa l'esperienza della salvezza o aumenta la frattura, la distanza da Dio. Tertium non datur. La croce non è neutra. È uno spartiacque. Dopo un dolore importante o si diventa migliori o si diventa peggiori. Per questo: quando un dolore importante irrompe nella nostra vita bisogna accettare di farsi aiutare, anche da chi magari lo fa solo perché costretto da una circostanza, dai doveri del proprio stato o per obbedienza ad un’autorità…non importa. È prioritario non rimanere schiacciati, non rimanere per terra. E non possiamo farcela da soli. Di solito gli esseri umani mostrano due atteggiamenti sbagliati di fronte al dolore: o rifiutano di farsi aiutare e, a causa della loro superbia, non riescono a rialzarsi e a superare una sofferenza che ha li messi per terra; oppure confondono il farsi aiutare con il cedere egoisticamente il proprio dolore agli altri. Bisogna invece prendere la propria croce (il proprio dolore) e camminare, proseguire verso la propria meta, che non è il dolore, ma la gioia, una vita più densa di senso e di significato.
Se Maria è la Donna, è la tenerezza e la dolcezza materne, è il Femminile nella sua massima espressione; Simone di Cirene è il maschile nella sua più importante funzione: quella di rimettere in piedi chi è caduto! Non importa se lo fa sbrigativamente, per costrizione o per convenienza, non importa se non appartiene alla cerchia dei discepoli di Gesù, non importa se è uno straniero. Importa in quel momento che ci sia qualcuno a rimettere in piedi Gesù. È certo che per Simone di Cirene Gesù è solo uno sconosciuto, un imprevisto che gli fa perdere tempo, che lo fa deviare dalla quotidiana routine di una delle tante giornate lavorative al termine della quale stava rincasando. Se ci togliamo la maschera del "theologically correct", dobbiamo ammettere che anche noi incontriamo molte volte Gesù ma, come Simone di Cirene, non lo riconosciamo; vediamo solo degli sconosciuti che ci causano fastidi, ci fanno perdere tempo, ci fanno deviare dalla nostra consueta routine. Senza la Donna non si riconosce in Gesù il Figlio, ma solo un uomo qualsiasi. Senza di lei non si riesce a riconoscere negli imprevisti - piccoli o grandi - della vita l'azione di Dio: si vedono solo gli uomini e loro azioni. Non riusciamo a dire di fronte a quegli eventi della vita che sono più grandi di noi quella frase che Gesù dice a Pilato: Tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto. Cioè non riusciamo a trovare nessun senso agli eventi avversi della vita che non sia la cattiveria degli uomini, la sfortuna, il vento contrario.
Quindi per attraversare il proprio dolore, per raggiungere la propria meta - che è sempre e solo Gesù sia per chi è formalmente cristiano sia per chi non lo è - è necessario lasciarsi guidare dalla Donna e farsi umilmente aiutare da un uomo.
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