venerdì 28 novembre 2025

Come cade una civiltà

 La caduta di Roma 



Quando un paese subisce una disfatta, inventa o esagera dei "gloriosi episodi" su cui richiamare l'attenzione dei contemporanei e dei posteri e distrarla dal risultato finale e complessivo. Ecco perché gli "eroi" allignano soprattutto negli eserciti battuti. Quelli che vincono non ne hanno bisogno. Cesare, per esempio, nei suoi Commentari non ne cita nessuno (p. 50).

Ma da questi guadagni [successivi alla vittoria nella seconda guerra punica] prese anche l'avvio una trasformazione della vita romana che non doveva rivelarsi benefica per le sorti dell'Urbe. (...) I tributi che pagavano gli stati soggetti, a suon di miliardi, anno per anno, praticamente facevano di ogni romano un rentier e lo svogliavano dal lavoro. (...) I costumi si addolcirono e ammollirono. Sorse quella che oggi si chiamerebbe una social life con salotti intellettuali e progressisti. La fede negli dèi si indebolì come quella nella democrazia, (...). La crisi non precipitò subito. Ma è in questi anni, seguiti alla catastrofe di Cartagine, che se ne creano le premesse (p. 131).

(...) Catone deplorò, giustamente, che per la prima volta nella storia di Roma i meriti combattentistici di un imputato facessero ostacolo alla giustizia, e in questo denunziò il primo trapelare di un individualismo che presto avrebbe corrotto la società col culto dell'eroe e distrutto la democrazia (p. 146).

A un uomo come lui [Polibio], che arrivava fresco di Grecia, dove lo scetticismo e l'incredulità non avevano più limiti, si capisce che i romani, i quali un barlume di fede lo conservavano, dovevano far l'effetto di altrettanti monaci. Ma si trattava proprio di un barlume (...) (p. 149).

Da quel momento la liturgia greca si diffuse (...). E il risultato fu che, da austera e piuttosto lugubre, qual era stata sino ad allora, diventò allegra e carnevalesca. Nel 186 il Senato apprese con allarmato stupore che il popolino si era particolarmente affezionato a Diòniso, ne aveva fatto il suo santo preferito, riempiva il suo tempio, e gli sacrificava con particolare entusiasmo. Se ne capisce facilmente la ragione: i sacrifici consistevano in pantagrueliche mangiate, in gagliarde bevute, e in un disfrenamento dei rapporti fra uomini e donne. Insomma, erano tutto fuorché "sacrifici" (p. 150). 

Ma tutto questo allentamento di freni avvenne soprattutto perché spirava in aria un vento di "libero pensiero". Lo avevano portato i "greculi", come li chiamavano per dileggio i romani, un dileggio che non impediva loro di prenderseli per maestri. Prigionieri di guerra importati da laggiù in condizione di ostaggi e di schiavi, furono infatti i primi grammatici, retori e filosofi, che aprirono scuole a Roma (p. 155).

Fu in uno di questi salotti [degli ambienti "culturali" del tempo] che si preparò la rivoluzione. La quale, contrariamente a quel che si crede, non nasce mai nelle classi proletarie, che poi le prestano la mano d'opera; ma in quelle alte, aristocratiche e borghesi, che poi ne fanno le spese. Essa è sempre, più o meno, una forma di suicidio. Una classe non si elimina che quando si è già eliminata da sé (p. 157).

Cimbri e teutoni si erano rifatti vivi, più numerosi e aggressivi che mai, rotolando come una valanga dalla Germania alla Francia. (...) E quando tornarono sui loro passi per assalire l'Italia, Mario, console da quattro anni, era pronto a riceverli. 
Egli aveva preparato un nuovo esercito, che costituì la sua vera grande rivoluzione, quella che poi fornì le armi a suo nipote Cesare. Aveva capito che non c'era più da fare assegnamento sui cittadini che si chiamavano "atti alle armi" solo perché, iscritti a una delle cinque classi, erano tenuti al servizio militare, ma non volevano prestarlo. E si rivolse agli altri, ai nullatenenti, ai disperati, attirandoli con una buona paga e con la promessa di bottino e di lauta assegnazione di terre dopo la vittoria. Era la sostituzione di un esercito mercenario a quello nazionale: operazione rischiosa e, alla lunga, catastrofica, ma resa necessaria dal decadimento della società romana (pp. 167-168).

Poiché tutto dipendeva dal denaro, il denaro era diventato la sola preoccupazioni di tutti (...). Roma era ormai diventata una pompa che succhiava quattrini in tutto il suo Impero per consentire a una categoria di satrapi una vita sempre più fastosa e un lusso sempre più insolente (p. 182).

Clodia, la moglie di Quinto Cecilio Metello, era quei tempi la "prima signora" della città, e faceva scuola alle altre. Essa era femminista (...), affermava il diritto alla poligamia anche per le donne, e lo praticò senza risparmio, (...). Il matrimonio con mano, cioè quello che non ammetteva il divorzio, era praticamente scomparso, appunto per consentire ai coniugi di rinnegarlo quando volevano. E bastava, per farlo, una semplice lettera. Figli non se ne volevano, perché sarebbero stati un impaccio (p. 186).

I gusti letterari di questa società ricca e frivola non si orientarono verso il più grande poeta e scrittore del tempo, Lucrezio. (...) A furoreggiare era Catullo, poeta facile e sentimentale, qualcosa di mezzo fra Gozzano e Géraldy (p. 187).

(...) tutti i romani ricchi, diventati sensibili alla "cultura" anche quando non ne avevano. (...) Il libro era diventato guarnitura d'obbligo in ogni casa che si rispettasse, anche se poi non lo si leggeva (...) (p. 246).

In genere, sebbene la si sia chiamata Periodo Aureo, l'epoca di Augusto non vide una fioritura letteraria e artistica da confrontarsi con quella della Grecia di Pericle o dell'Italia del Rinascimento. Sotto quell'imperatore borghese, si sviluppò un gusto altrettanto borghese che prediligeva ciò che è medio, e ciò che è medio spesso è mediocre (p. 247). 

S'ingrassava. La statuaria di questo periodo, a confrontarla con quella della Roma stoica, tutta di figure secche e angolose, ci mostra un'umanità allentata e arrotondita dall'ozio e dalle indulgenze dietetiche (p. 296).

La depressione di Wall Street nel 1929 ebbe il suo precedente a Roma quando Augusto, tornando dall'Egitto con l'immenso tesoro di quel paese in tasca, lo mise in circolazione per rianimare i traffici che languivano. (...) Le industrie e le botteghe che vi attingevano non poterono pagare i fornitori e dovettero chiudere anch'esse. Il panico dilagò. Tutti corsero a ritirare i loro depositi dalle banche (pp. 304-305).

Quando Augusto assunse il potere, il calendario romano conosceva settantasei giorni di festa, press'a poco come oggi; quando il suo ultimo successore ne decadde, ce n'erano centosettantacinque, cioè una festa un giorno sì ed uno no (p. 306).

Mentre il teatro scadeva così nella rivista di varietà, sempre più cresceva la fortuna del Circo (p. 307).

Il primo numero fu la presentazione di animali esotici, molti dei quali i romani non avevano ancora mai visto (p. 308).

Seguivano i combattimenti fra gladiatori, (...) Roma e i suoi imperatori non potevano fare a meno di questa carne umana da macello (p. 309).

Questo modo di divertirsi al sangue e alla torture non sollevava obbiezioni nemmeno fra i moralisti più severi (p. 310).

Soltanto Seneca ci ha lasciato una condanna dei giuochi gladiatori che dice di non aver mai frequentato. Egli andò a visitare il Circo Massimo una volta sola, e rimase sbigottito. "L'uomo, la cosa all'uomo più sacra, qui viene ucciso per sport e divertimento" disse tornando a casa (p. 311).

Era il 31 dicembre del 192 dopo Cristo. Cominciava la grande anarchia. (...) Il Senato era caduto in basso, (...) (p. 334-335).

Settimio governò per diciassette anni, rivolgendosi al Senato solo per impartirgli ordini, e quasi sempre guerreggiando. Egli introdusse una grande e pericolosa novità: il servizio militare obbligatorio per tutti, ad eccezione degli italiani, ai quali invece era proibito. Era il riconoscimento della decadenza guerriera del nostro paese e della sua irrimediabilità (p. 336).

Dopo Nerone, l'ostilità nei loro riguardi [dei cristiani] diventò un'ondata di fondo, e la legge che proclamava delitto capitale la professione della nuova fede non fu il ghiribizzo di un imperatore a suggerirla, ma un fremito di odio collettivo a suscitarla. (...) La persecuzione cominciò a diventare sistematica con Settimio Severo che proclamò delitto il battesimo. (...) Sei anni dopo, sotto Valeriano, il papa stesso, Sisto II, fu messo a morte. (...) e allora l'imperatore [Diocleziano] ordinò che tutte le chiese cristiane fossero rase al suolo, tutti i loro beni confiscati, i loro libri bruciati, i loro adepti uccisi (pp. 354-355).

Egli [Costantino] doveva essere rimasto molto colpito dalla superiore moralità dei cristiani, dalla decenza della loro vita, (...). Essi avevano formidabili qualità di pazienza e di disciplina. E ormai, se si voleva trovare un buon scrittore, un bravo avvocato, un funzionario onesto e competente, era fra loro che bisognava cercarlo. Non c'era, si può dire, città in cui il vescovo non fosse migliore del prefetto (p. 357).

Lo trucidarono [Stilicone, generale teutonico noto per le sue virtù] in una chiesa, a Ravenna. E forse il più stupido, ignobile e catastrofico dei delitti che siano stati commessi in nome di Roma. Esso non soltanto privò del suo miglior servitore l'Impero, ma fece capire a tutti i barbari, che ancora gli erano fedeli, che cosa esso fosse diventato. Erano costoro i migliori funzionari e soldati che ancora reggevano la baracca. Essi credevano al prestigio di Roma. E Roma, uccidendo Stilicone, lo distrusse con le sue mani.
Da allora tutto precipitò. Alarico, invece di venire in Italia come alleato, vi giunse da conquistatore (p. 379).

L'impero era già tutto in mano ai barbari (...). Un ultimo sprazzo di orgoglio e di coraggio la romanità lo dava soltanto in Africa, dove il generale Bonifacio, già condannato per alto tradimento, e il vescovo Agostino, assediati a Ippona, resistevano ai vandali di Genserico. (...) Barbari erano coloro che sconfiggevano altri barbari (...) (pp. 380-381).

Nel 452, Attila ricomparve. Ma stavolta non attaccava la Gallia, sibbene l'Italia stessa (p. 381).

La leggenda vuole che Attila s'impaurisse alla minaccia di essere scomunicato [da Papa Leone I] se osava attaccare Roma. (...), invece di passar l'Appennino, ripassò le Alpi, e l'anno dopo morì (p. 382). 

Oreste proclamò sovrano suo figlio, Romolo Augusto. Una sorte ironica volle dare a questo ragazzo, destinato ad essere l'ultimo imperatore di Roma, il nome del primo (p. 384).

Qui finisce la nostra storia. Come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali interni (p. 385).

(estratti di Storia di Roma di Indro Montanelli).

 

martedì 25 novembre 2025

Il tramonto della scuola


 
Da ascoltare per profondità di contenuti e proprietà di linguaggio. L’unico neo è la parte sui disturbi del neurosviluppo in cui viene lasciato intendere che non siano disturbi autentici perché non se ne conosce a pieno l’eziopatogenesi. Questa purtroppo è una delle conseguenze dell’eccessiva psicologizzazione della società - scuola compresa -, che porta con sé il rischio di rigetto della sfera psichica tout court. Ma per il resto è un’analisi acuta dello stato attuale in cui versa la scuola, esposta con una padronanza della lingua italiana di rara bellezza. 

lunedì 24 novembre 2025

I segni dell'Incarnazione

  1. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia.
  2. Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. 
  3. Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
  4. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi.
  5. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.

Cinque sono i segni che attestano la presenza di Dio nel mondo: il Bambino, il Crocifisso, la Donna, l'enorme drago rosso ed il deserto. Sono i segni dell'Incarnazione, cioè di quel mistero attraverso cui Dio si rende immanente, si rende realmente presente nelle vicende umane. 

Quando Dio si fa presente nella storia appaiono tutti questi segni. 

Noi vorremmo un Dio forte, invece appare un bambino; vorremmo un Dio che elimini la sofferenza e invece si mostra inchiodato e sanguinante su una croce; vorremmo un Dio autosufficiente e invece si fa bisognoso della Donna; vorremmo un Dio che cancelli il male e invece la sua venuta scatena l'enorme drago rosso; vorremmo un Dio che sazi ogni nostro bisogno e invece ci conduce nel deserto a fare l'esperienza della sete.

Che cosa significano questi segni concretamente?

Significano che Dio è realmente presente: 1) ovunque ci sia una creatura (animali compresi) debole e indifesa ma anche gioiosa ed innocente come un bambino; 2) in tutte le creature che soffrono; 3) nell'accudimento femminile e materno; 4) nell'esperienza di essere attaccati dal male e di combatterlo (non usandone le stesse armi); 5) e nell'esperienza della mancanza.

1. Vuoi incontrare Dio? Accogli il Bambino, cioè impara dai bambini che sanno essere deboli e indifesi ma, allo stesso tempo, sanno gioire del tempo presente. Sii felice per quello che c'è adesso nella tua vita. Non aspettare domani pensando che sarai felice quando avrai risolto tutti i problemi della tua vita. Non arriverà mai quel giorno.

                                           


2. Vuoi incontrare Dio? Accogli il Crocifisso, ovvero gli imprevisti spiacevoli della vita. Non vergognarti di farti aiutare quando sei inchiodato ad una croce e non puoi più muoverti. Non cercare l'autosufficienza, spogliati dei beni accumulati con l'unico obiettivo di essere autosufficiente. Quei beni ti renderanno aggressivo e ansioso e ti impediranno di godere della protezione di Dio. In generale accogli il caso e l’imprevisto, perché dietro ciò che non hai pianificato si nascondono la vita, l’amore e la tua vocazione. 



3. Vuoi incontrare Dio? Accogli la Donna, non l'immagine distorta e strumentalizzata che oggi il mondo offre di lei e del suo corpo. Impara l'accudimento femminile e materno; impara da lei la discrezione ed il pudore, la delicatezza del tratto, la bellezza, l'amore; sii aggressivo se è necessario ma, come lei, non per la sete di successo e di potere, ma per difendere ciò che ti è stato affidato, ciò che è essenziale, ciò di cui sei responsabile.



4. Vuoi incontrare Dio? Combatti il male e la menzogna anche a costo di assumere posizioni scomode, di perdere l'appoggio del mondo, di apparire ridicolo. Combatti il male con il bene. La menzogna con la verità; l'indifferenza con la carità; la disperazione con la speranza; l'incredulità con la fede. Accetta di essere graffiato dal male, di riportare qualche cicatrice; solo chi non combatte mai gode sempre di buona salute. Non combattere però il male andando sul suo stesso terreno, cioè con la violenza e con l'inganno. Perderesti l'appoggio di Dio.



5. Vuoi incontrare Dio? Attraversa il deserto, accetta la mancanza. Non colmarla con piaceri e distrazioni di ogni genere che diventeranno poi le tue catene, le tue schiavitù. Non essere schiavo di niente e di nessuno. Sii libero. E per esserlo devi imparare a dire qualche "no", soprattutto ai piaceri e alle distrazioni che il mondo offre. Non solo ai piaceri fisici ma anche a quelli psicologici, come il godere della buona stima degli uomini, del potere e del controllo. Agisci per amore, per una genuina passione, non per essere apprezzato o ammirato e Dio ti ricompenserà. Se lo non lo fai, quei piaceri e quelle distrazioni riempiranno di rumore il tuo mondo interno e ti impediranno di godere della presenza di Dio nell'intimo della tua interiorità.


Accogli tutti e cinque questi segni, senza rifiutarne nemmeno uno; accoglili con la stessa sacralità con con cui entri in una Chiesa e incontrerai realmente e concretamente Dio nella tua vita. 

Sarà il tuo compagno di viaggio. 

Chi abita al riparo dell'Altissimo
passerà la notte all'ombra dell'Onnipotente.
Io dico al Signore: "Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido".
Egli ti libererà dal laccio del cacciatore,
dalla peste che distrugge.
Ti coprirà con le sue penne,
sotto le sue ali troverai rifugio;
la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza.
Non temerai il terrore della notte
né la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno.
Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra,
ma nulla ti potrà colpire.
Basterà che tu apra gli occhi
e vedrai la ricompensa dei malvagi!
"Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!".
Tu hai fatto dell'Altissimo la tua dimora:
non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.
Egli per te darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutte le tue vie.
Sulle mani essi ti porteranno,
perché il tuo piede non inciampi nella pietra.
Calpesterai leoni e vipere,
schiaccerai leoncelli e draghi.
"Lo libererò, perché a me si è legato,
lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.
Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell'angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso.
Lo sazierò di lunghi giorni
e gli farò vedere la mia salvezza".








sabato 22 novembre 2025

La libertà e il male

Per Sant’Agostino il male è l’assenza di qualcosa che dovrebbe esserci. Non tutte le mancanze sono un male, se si tratta di mancanze connaturate alla natura di un ente (Sofia Vanni Rovighi). L’assenza di ali nell’uomo non è un male, perché non compete alla natura umana avere le ali. La mancanza delle gambe nell’uomo, invece, è un male (fisico). Quindi esistono mancanze fisiche, psicologiche e spirituali che sono un male e mancanze fisiche, psicologiche e spirituali che non lo sono. 

La dimensione sana della mancanza ha a che fare con i bisogni. Avere dei bisogni non è un male. Non è un male: avere fame e avere bisogno di mangiare sul piano fisico; avere bisogno di affetto e del calore di una relazione stretta sul piano psicologico; avere bisogno di Dio, di un senso, di una vocazione sul piano spirituale. È male riempire queste mancanze con dei surrogati. È male ricorrere al cibo se ho bisogno di affetto, ad esempio. È male ricorrere alle creature, se ho bisogno di Dio. Il vuoto, il deserto interiore di cui si è parlato nel post precedente non è nient’altro che il bisogno di Dio, quindi sentire questo vuoto non è male; è male fare della nostra interiorità - che è prima di tutto tempio di Dio - un covo di ladri.

Siccome Dio è Sommo Bene, il male, inteso come la mancanza di qualcosa che dovrebbe esserci, è da ricondurre alla libera volontà delle creature. 

Si potrebbe obiettare superficialmente che esistono mali, come le malattie e la morte, che non necessariamente sono causate della nostra libera volontà.

Rispondo che esistono creature che hanno una natura puramente spirituale e non tutte queste creature agiscono per il nostro bene. 

È un errore credere che “creato” sia sinonimo di “ciò che è materialmente visibile”. D’altra parte, anche in psicologia crediamo all’esistenza di enti personali di natura puramente spirituale, nel senso che non sono materialmente visibili e a cui riconosciamo un’intenzionalità - nello specifico quella di agire contro di noi -; ne cito due: il “genitore punitivo” della Schema Therapy, e gli “oggetti interni cattivi” della psicoanalisi.

È un grave errore pensare che questi enti siano semplicemente il frutto di esperienze infantili avverse e che possano essere affrontati esclusivamente con gli strumenti della psicologia. È grave perché questi enti, essendo puri spiriti, quindi non soggetti alla materia e al tempo - a differenza di noi esseri umani -, hanno un’intelligenza ed una intenzionalità di gran lunga superiori alle nostre. E per liberarci di loro, non sono sufficienti né la nostra intelligenza né la nostra intenzionalità. D’altra parte è proprio in vista del combattimento contro questi enti che ci sono stati dati i sacramenti (della Chiesa Cattolica); e, tra tutti, uno in particolare, quello della Confessione, è un vero e proprio sacramento di guarigione interiore perché è più potente di un esorcismo. 

Se è frequente oggi psicologizzare ciò che è spirituale illudendosi che tutti i problemi che riguardano la nostra interiorità si risolvano negli studi dei professionisti della salute mentale, è diffuso anche l’errore uguale e contrario in cui cadono molti credenti, quello di spiritualizzare tutta l’esistenza; come se la fede magicamente dispensasse il credente dall’occuparsi della propria psiche e del proprio corpo. Questa fede non è cristiana ma diabolica, perché colloca il cristiano su un piedistallo e lo esonera dalle fatiche psicologiche, sociali e culturali del suo tempo: è una fede senza opere, contraria inoltre all’umiltà e alla fraternità cristiane.

Quindi attenzione a questi due errori speculari oggi molto diffusi: la convinzione che l’uomo con la sua intelligenza possa risolvere tutti i suoi problemi e la convinzione che la fede risolva tutti i problemi dell’uomo senza che quest’ultimo faccia la fatica di usare la propria intelligenza. Questi errori sono frutto della scissione tra fede e ragione, che è tipica della fase discendente di una civiltà. 

Il male quindi ha a che fare con l’intenzionalità, con un allontanamento della nostra volontà da Dio che è Sommo Bene. Solo le creature dotate di uno spirito hanno un’intenzionalità. Gli animali possono avere un’intelligenza ma non un’intenzionalità in senso stretto. 

Il male sta sempre in una perversione della volontà, la quale anziché essere attratta dal Bene, come dovrebbe essere, si rivolge a ciò che è male fornendone il pieno assenso. 

Tutto ciò che proviene dal Sommo Bene non può essere male, ne consegue che nessuna creatura in quanto tale è male, nemmeno il demonio, perché anch’esso proviene da Dio. 

Attenzione però: la creatura, con il suo libero arbitrio, può allontanarsi da Dio in modo irreversibile. 

Siamo veramente liberi.

E la libertà non è un gioco. È una cosa seria. Possiamo veramente arrivare al punto di perdere irrimediabilmente la nostra interiorità, la nostra personale vocazione, il nostro personale incontro con Dio, la nostra primogenitura per trenta denari o per un piatto di lenticchie. Se si leggono con attenzione i passi della Genesi e del Vangelo che narrano le vicende di Esaù e di Giuda, c’è un aspetto che li accomuna e che dovrebbe suscitare un sano timore: entrambi si accorgono della gravità di ciò che hanno commesso quando ormai non è più possibile rimediare. Quindi attenzione ad ignorare gli inviti di Dio a non sprecare il tempo che ci è stato donato rincorrendo il superfluo. 

State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell'uomo.

E, ancora, per l'uomo che si presenterà a quell'appuntamento con il cuore appesantito da tutti i "trenta denari" della propria vita: sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato

Come ricorda Sant'Agostino, Gesù dice il vero non soltanto quando parla delle beatitudini, ma anche quando parla dei “guai”.


giovedì 20 novembre 2025

La libertà e il deserto interiore

Libertà e deserto interiore sono due temi così strettamente intrecciati che non si può parlare dell'una senza parlare necessariamente dell'altro.

Tutti noi abbiamo un deserto interiore, un vuoto interiore. Dal modo in cui lo abitiamo o dal modo in cui ci rifiutiamo di abitarlo dipendono rispettivamente la nostra libertà o la nostra schiavitù. È in virtù dell'esercizio della nostra libertà nel deserto che ci sono stati dati i noti consigli evangelici di povertà (di spirito), di castità e di obbedienza. 

Sono i tre pilastri su cui si regge la nostra libertà interiore. Sono le tre stelle polari interiori che dovrebbero guidare le nostre decisioni per evitare di finire schiavi delle ricchezze, dei piaceri e di altri esseri umani. Precisiamo subito al riguardo che povertà non è pauperismo; castità non è repressione della sessualità e di altri piaceri della vita; obbedienza non è sottomissione passiva agli altri. Anzi, i consigli evangelici servono proprio per evitare gli estremi opposti del pauperismo o dell'eccessivo accumulo di ricchezze; della repressione o delle dipendenze dai piaceri fisici; del dominio o della sottomissione agli altri.  

Partiamo dalla castità. È necessario partire dal corpo perché, anche se esistono piaceri di natura psicologica e spirituale, se c’è un disordine nel modo in cui viviamo i piaceri della carne ci saranno inevitabilmente disordini anche nella psiche e nello spirito. Nelle dipendenze ad esempio, la sostanza, il cibo, l’attività, le persone da cui siamo dipendenti impediscono di accedere alle più alte dimensioni psicologiche e spirituali, perché c’è una netta predominanza della dimensione corporea che sovrasta la psiche e lo spirito. Questo vale anche nelle relazioni di coppia quando sono caratterizzate da dipendenza, la dimensione corporea è eccessivamente dominante: c’è un costante bisogno di vedere fisicamente l’altro, di sentirlo, di toccarlo; c’è un bisogno di fagocitare l’altro fisicamente, bisogno che si autoalimenta costantemente e non si appaga mai. Essere casti significa innanzitutto avere rispetto del corpo, proprio e altrui, e cioè: non usare il proprio corpo e quello degli altri come un oggetto di piacere per colmare un vuoto interiore. 

Bisogna imparare a tollerare il vuoto interiore, bisogna tollerare che siamo mancanti. In questo post ho definito la mancanza che tutti ci portiamo dentro ferita di abbandono. Potete darle il nome che volete, chiamatela disperazione se volete, come l'ha definita recentemente Don Luigi Maria Epicoco in una delle sue solite illuminanti catechesi (devo molto a questo sacerdote, perché mi ha aiutato a vedere il ponte che c’è tra psicologia e spiritualità cristiana). Datele il nome che più vi aiuti a sentirla anche sul piano fisico ed emotivo, e non solo a concepirla sul piano intellettuale. Bisogna evitare di colmare questa mancanza, questa disperazione, questa ferita di abbandono con qualsiasi cosa che ci capiti sottomano. In questo senso si capisce meglio l’importanza del digiuno cristiano, che non è un favore che facciamo a Dio, ma un favore che facciamo a noi stessi allenando la nostra libertà ed esercitandoci a tollerare la frustrazione di stare nella mancanza. 

Questa mancanza interiore è il deserto biblico: luogo inospitale dove facciamo esperienza della fame; delle tentazioni (di soddisfare questa fame con ciò che non è lecito e che non è nemmeno in grado di soddisfarla); e dei ruggiti delle nostre paure. Ma bisogna attraversare questo deserto - come Dante ha attraversato l'inferno - per raggiungere la Terra Promessa, il Paradiso, il "ben ch’i’ vi trovai". 

Non c'è alternativa.

Dobbiamo attraversarlo sapendo però che non siamo soli, che siamo accompagnati da Gesù, in modo particolare da Gesù Crocifisso. Nel post precedente ho parlato dell'esperienza della Trasfigurazione come di un incontro glorioso con Dio. Questa esperienza è caratterizzata da un'intensa gioia e dalla chiarezza della propria vocazione. Anche Madre Teresa fece l’esperienza di questo incontro glorioso con Dio quando si sentì chiamata e invitata da Dio ad andare a Calcutta per aiutare i più bisognosi. Si tratta però di un’esperienza di breve durata, che serve a fare il pieno di amore da parte di Dio per poi proseguire il cammino nel deserto con Gesù Crocifisso - cioè Dio che si è spogliato della gloria -. Anche Madre Teresa ha attraversato il suo doloroso deserto interiore. In quel deserto è diventata Santa Teresa di Calcutta. Anche lei aveva il suo superfluo da cui essere liberata.

In questo cammino c'è una certezza però che non dobbiamo mai perdere: Dio è accanto a noi. Non ci abbandona mai. Nessuno potrebbe attraversare il deserto senza l'aiuto di Dio. E Dio si serve di qualsiasi cosa per guidarci nel deserto. Di una persona, di un libro, di una circostanza, di un imprevisto. Il Crocifisso ama nascondersi, dobbiamo pertanto avere la vista allenata. Dobbiamo fare la nostra parte distogliendo, per quanto ci è possibile, lo sguardo dal superfluo e poi chiedere la Grazia di scorgere la presenza di Dio laddove sembra non esserci. Dobbiamo gridare come il cieco di Gerico: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!" - "Che vuoi che io faccia per te?" - "Che io riabbia la vista!" - "Va', la tua fede ti ha salvato".  

Gesù si è servito anche di Virgilio per guidare Dante nel suo personale deserto. La Guida è sempre solo Gesù. Non esiste altro Maestro. 

Dobbiamo fermarci un attimo adesso per capire che cosa si intende quando diciamo che Dio si serve di qualcuno, che la Guida è solo Gesù.

È importante soffermarsi su questo aspetto perché nella realtà noi vediamo solo altri esseri umani, vediamo solo le guide e non la Guida. Qui sta il mistero dell'Incarnazione, che può essere solo in minima parte compreso con la ragione. Si manifesta il mistero dell’Incarnazione tutte le volte in cui l’azione della Provvidenza e la libertà delle creature convergono. Facciamo un esempio concreto. Se mentre cammino per strada vengo fermato da un senzatetto che mi chiede del cibo, se accolgo la sua richiesta e gli offro un pasto sto facendo del bene ad un'altra persona. Quell'azione caritatevole la compio io e non Dio, ma Dio si serve della mia azione per agire spiritualmente nel senzatetto in un modo che a me non è dato conoscere. In questo senso la Provvidenza coesiste con la nostra libertà. Non nel senso che siamo delle marionette nelle mani di Dio. Siamo veramente liberi di compiere il bene o il male. E d'altra parte, è proprio perché siamo liberi che è previsto un premio (il Paradiso) e una punizione (l'Inferno) per le nostre azioni. Tuttavia Dio, che è Spirito, è in grado di usare le nostre (libere) azioni per agire spiritualmente negli altri e in noi. Ovviamente questo discorso - che comunque non afferra tutto il mistero dell’Incarnazione - lo si può accogliere solo se si ammette che l'uomo ha anche dei bisogni spirituali, ha cioè bisogno di fare l'esperienza dell'incontro con Dio, di sentirsi amato da Dio. Se nel senzatetto vedo solo una pancia da riempire, non accetterò in nessun modo che Dio possa agire insieme a me. Qui sta la differenza netta tra la carità cristiana e la filantropia mondana. Il cristiano sa che la carità non è fine a se stessa, ma deve permettere l’incontro con Dio; altrimenti non è carità cristiana, è filantropia mondana, dove tutto si riduce a riempire una pancia. Il loro dio è il ventre...gente che ha l'animo alle cose della terra. 

Dopo questa breve parentesi sull’Incarnazione, torniamo al deserto interiore.

Questa mancanza non è qualcosa di meramente corporeo, o psicologico, o spirituale; ma è connaturata a tutto il nostro essere. Quindi tutti i tentativi di colmarla e di non sentirla ricorrendo ai piaceri corporei, ai piaceri psicologici e ai piaceri spirituali sono destinati a fallire rovinosamente: non solo non risolveremo la mancanza ma svilupperemo anche delle dipendenze accumulando problemi su problemi. 

Per colmare questo vuoto, possiamo usare non solo il piacere che deriva dal corpo, ma anche quello che deriva dall’attività mentale o spirituale, per esempio, potremmo ricorrere al sogno ad occhi aperti, alla fantasticheria o al rimuginino sul piano psicologico. Con la stessa finalità possiamo usare sul piano spirituale Dio, la preghiera e la verità. Questo è uno dei motivi per cui l’esperienza della Trasfigurazione dura poco, perché essendo molto piacevole c’è il rischio di diventarne dipendenti e di usare Dio come una sostanza.

Quindi dobbiamo rinunciare al piacere?

No. Bisogna passare al vaglio i frutti del piacere. Quando quest’ultimo è puro genera vita, comunione, condivisione, senso, accresce la libertà; al contrario, quando è impuro - cioè è usato per colmare il proprio vuoto - genera isolamento, sensi di colpa, rabbia, rancore e accresce la distanza dagli altri e da Dio.

Questo principio lo possiamo applicare anche alle ricchezze e alle relazioni con gli altri. Arriviamo così agli altri due consigli evangelici: povertà ed obbedienza. Ribadisco, per evitare equivoci, che la povertà evangelica non equivale a spogliarsi materialmente di tutte le proprie ricchezze, non è pertanto pauperismo; e l’obbedienza non è sottomissione. Anche qui vale quindi lo stesso e identico principio applicato alla castità: Perché sto usando le ricchezze e quali frutti interiori genera l’uso che faccio di esse? Perché voglio che gli altri mi obbediscano o perché io sto obbedendo agli altri? Il termine obbedienza è oggi desueto e genera confusione. È più facile cogliere il senso di ciò che voglio dire se traduciamo così l’obbedienza: Perché faccio ciò che gli altri mi chiedono e perché io avanzo delle richieste o impartisco delle disposizioni agli altri? Se lo faccio per non sentire il vuoto interiore ciò genera sul piano interpersonale dominanza e sottomissione: cioè sto possedendo gli altri o mi sto lasciando possedere dagli altri. E sul piano delle ricchezze ciò genera avarizia, bisogno di accumulare continuamente le proprie ricchezze ed ansia di perderle.  

Per evitare un uso sbagliato del corpo, del denaro, degli oggetti, di noi stessi, degli altri e di Dio ci sono due antidoti: un sano digiuno - fisico, psicologico e spirituale -; e la carità - ovvero donare gratuitamente agli altri le nostre ricchezze materiali, psicologiche e spirituali -.

martedì 18 novembre 2025

La libertà e la croce

Nell'ultimo post si è detto che la vera libertà è rinunciare ai propri desideri a favore di ciò che si è rivelato come essenziale. Non bisogna rinunciarvi del tutto, ma solo nella misura in cui i nostri desideri risultano incompatibili con ciò che è essenziale. Solo in questo modo ci liberiamo dalla tirannia dei desideri e dei sentimenti che ci rendono schiavi del mondo esterno; che, come le onde di un mare in tempesta, ci sbattono continuamente contro situazioni, persone, attività, giudizi altrui, ecc. Solo così acquisiamo una libertà interiore, che è più urgente delle libertà esteriori - quelle che dipendono dalle contingenze sociali, politiche ed economiche del nostro tempo -. Non che queste libertà non siano importanti, tuttavia: cosa me ne faccio, ad esempio, della libertà politica se poi sono schiavo interiormente e, quindi, quella libertà non saprei nemmeno apprezzarla ed esercitarla adeguatamente?

Preciso un punto fondamentale: si può parlare di vera libertà interiore solo in relazione a Dio. Rispetto alla libertà, tutti noi siamo come bambini che stanno imparando a camminare: abbiamo bisogno di un adulto che ci aiuti, e l’adulto in questione è solo ed esclusivamente Dio. 

Chi si aspettava una qualche tecnica di autoliberazione, o una nuova teoria o una nuova filosofia resterà deluso. Il mondo offre già una miriade di dottrine, filosofie, tecniche di liberazione: quanto queste teorie siano in grado di liberare l’uomo ognuno può giudicarlo da sé. Periodicamente nella storia dell’uomo si affaccia qualche nuovo venditore di libertà (e di fumo). E d’altra parte, se ti sei soffermato a leggere questo blog è perché anche tu hai sperimentato la vacuità di ciò che il mondo ha da offrire. 

Solo Dio può liberare interiormente l’uomo, perché solo Dio può liberarci dalla madre di tutte le paure: la paura della morte. A condizione ovviamente di collaborare con la nostra libertà, anche se fragile. Esattamente come fa il bambino quando impara a camminare, collabora con le sue gambe e non rinuncia se i suoi passi sono instabili ed incerti.

Come interviene Dio nella vita di ognuno di noi?

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
    Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
    Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Ad un certo punto nel mezzo del cammin della vita di ognuno di noi irrompe l’azione di Dio come un fatto chiaro, evidente ed oggettivo. Non si tratta quindi di una mera questione psicologica, come se Dio fosse nascosto in un qualche inconscio psicologico. Non si tratta necessariamente di visioni mistiche straordinarie. Si tratta solitamente di qualcosa di più discreto, ma, allo stesso tempo, chiaro ed inequivocabile: Dio si è palesato e vuole condurti da qualche parte.

La Grazia si staglia sulla natura umana. Ovviamente Dio per distinguersi dalla natura umana la deve in qualche destabilizzare: deve essere chiaro che si tratta di Dio e non di fenomeni riconducibili alla psicologia, alla biologia, alla fisica o a qualche altra scienza umana.

Tuttavia, per evitare di deragliare in un misticismo esoterico e magico, e pertanto pericoloso e ingannevole, preciso che il punto di partenza sono sempre l’amore e la verità, nel modo in cui sono concretamente presenti nella  vita di ognuno di noi. Dio è Amore; è Via, Verità e Vita: pertanto solo se mi apro all’Amore - rinunciando ai piaceri effimeri e alle relazioni mediocri -; solo se mi apro alla Vita - rinunciando alle smanie di controllo -; solo se mi apro alla Verità - rinunciando alle menzogne con cui per comodità ho per tanto tempo colluso -, posso incontrare Dio. Altrimenti si resta nella “selva oscura” e non si ha accesso al “ben ch’i’ vi trovai”. 

[Diego Velázquez, Cristo crocifisso, 1631, olio su tela (248 × 169 cm), Madrid, Museo del Prado.]

Tutte queste rinunce sono a tutti gli effetti esperienze di croce, perché se la gratificazione di un desiderio o la scarica di una pulsione produce un piacere immediato, il bene che deriva dall’aver scelto l’essenziale è differito nel tempo. C’è quindi una croce che viene da Dio ed una croce che dobbiamo prendere volontariamente noi rinunciando ad un piacere immediato a favore di un bene che, dopo averlo brevemente intravisto, ci viene subito sottratto. L’esperienza di vedere il Bene brevemente e poi non vederlo più è quella che fanno Pietro, Giacomo e Giovanni nella Trasfigurazione di Gesù; si tratta di un’esperienza di così intensa gioia che fa dire a Pietro: “restiamo qui!” Quando Dio si manifesta nella gloria si fa una tale esperienza di senso, di gioia, di protezione, di vocazione che ti fa esclamare come Pietro, “restiamo qui”, o, come dicono i discepoli di Emmaus quando incontrano Gesù risorto: “resta con noi”, e aggiungono: “perché si fa sera ed il giorno volge al tramonto”, che tradotto significa: “resta con noi che sta per approssimarsi nuovamente la selva oscura”.

Ma è la “selva oscura” il luogo della purificazione interiore, la palestra per esercitare la propria libertà e la propria fede. 

La fede è rimanere fedele nel buio a ciò che si è visto nella luce. 

Ed è questa la più grande libertà dell’uomo.


domenica 16 novembre 2025

La libertà umana

Nei tre precedenti post abbiamo considerato il dolore (la croce) come un momento di verità in cui si rivela ciò che nella nostra vita è essenziale, ovvero, l’amore, le persone che abbiamo accanto, la nostra vocazione, e persino Dio stesso che è l’Essenziale

Ad una condizione però: decidere di rinunciare al superfluo.

È necessario pertanto soffermarsi sulla libertà umana che è stata finora solo sfiorata ma senza la quale il discorso affrontato negli ultimi post rimarrebbe incompleto. Il dolore svela ciò che è essenziale separandolo dal superfluo, nel senso di dare salienza all'essenziale ma non nel senso di rimuovere automaticamente il superfluo dalla nostra vita. Quest’ultimo passo tocca a noi farlo mettendo in gioco la nostra libertà. Sta a noi, dopo aver preso consapevolezza dell'essenziale, agire di conseguenza usando la nostra libertà. 

Ne consegue un quesito non di poco conto: che cos’è la libertà umana e coma la si mette in gioco?

La libertà non è ottenere tutto quello che desideriamo, come ci fa credere l'esangue cultura moderna. La libertà è rinunciare a ciò che desidero a favore di ciò mi si è stato rivelato come essenziale. 

Un lettore attento potrebbe obiettare: ma non avevi scritto che è importante avere una passione, avere dei desideri? Certo che è importante avere una genuina passione ma, allo stesso tempo, i nostri stessi desideri hanno bisogno di essere liberati perché se noi fossimo sempre capaci di desiderare ciò è essenziale avremmo risolto tutti i nostri problemi. Purtroppo facciamo tutti esperienza che le cose non stanno così. Molto spesso desideriamo ciò che è del tutto superfluo e dannoso, e, pur avendo visto e capito ciò che è essenziale, non riusciamo a sceglierlo. La nostra libertà appare talvolta paralizzata. Questa è una delle esperienze più dolorose che possiamo vivere. A questa esperienza fa riferimento l’Apostolo Paolo quando nella Lettera ai Romani dice esplicitamente: Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. 

Rocco Siffredi qualche anno fa con grande coraggio ha mostrato la propria fragilità nel programma tv “Belve” di Francesca Fagnani, riferendo una simile esperienza dolorosa. Ha confessato che quando ha smesso di fare l’attore porno voleva anche smettere con quel tipo di vita e di sessualità, ma non ci è riuscito. Voleva smettere evidentemente per un genuino amore per la sua famiglia. Era sinceramente commosso quando ne parlava. Traspariva un sincero amore per la moglie ma, allo stesso tempo, il dolore per la propria incapacità di rinunciare ad una pratica da tanto tempo consolidata nella sua natura. Purtroppo la conduttrice di fronte a questo genuino dolore ha continuato a mantenere lo stile asciutto e distaccato che ha contraddistinto tutta l’intervista e che, davanti ad una genuina autoapertura che lasciava emergere una profonda sofferenza interiore, era del tutto inappropriato. Spero che Rocco Siffredi non abbia “spento” del tutto quella sana sofferenza e non abbia perso la speranza di liberarsi dalla dipendenza dal sesso. 

Si dirà: ma questo discorso non vale tutti, non tutti fortunatamente siamo come Rocco Siffredi. Caro lettore, se pensi di essere meglio di Rocco Siffredi perché non hai (o pensi di non avere) una dipendenza sessuale non ti sei ancora seriamente guardato dentro. Perché tutti abbiamo delle schiavitù da cui abbiamo bisogno di essere liberati; e tutti, esattamente come Rocco Siffredi, abbiamo fatto delle nostre schiavitù una fonte di remunerazione, non solo e non necessariamente economica. Detto in modo più esplicito: tutti abbiamo delle attività che ci danno piacere e che usiamo per colmare un vuoto interiore. E per il lungo uso che ne abbiamo fatto ne siamo diventati dipendenti. Queste sono le idolatrie a cui fa riferimento tutta la Sacra Scrittura. E tutti abbiamo una qualche idolatria che fa da impedimento alla nostra libertà; anche tu, caro lettore, ne hai almeno una, a meno che non pensi di essere tu l’Agnello senza macchia. In tal caso soffri anche di un’altra idolatria: quella del tuo io.

Non è scontato quindi che, una volta che abbiamo compreso cos’è essenziale, siamo anche in grado di orientare la nostra libertà verso quest’ultimo. Per questo motivo San Giovanni Paolo II ribadì che la stessa libertà umana necessita di essere liberata.

Da cosa?

Dall’uso sbagliato che ne abbiamo fatto. Se per una vita intera ho messo la mia libertà al servizio del superfluo non sarà possibile fare un’immediata inversione di marcia. Noi vorremmo fare tagli netti. Questo purtroppo è un pensiero magico che applichiamo a noi stessi e a Dio. Vorremmo liberarci subito delle nostre schiavitù, ma non ci rendiamo conto che una libertà acquistata a poco prezzo alla prima occasione la rimetteremmo al servizio del superfluo. Una libertà invece conquistata a caro prezzo magari dopo un cammino che ha lasciato ferite e cicatrici ci guarderemmo bene dal rimetterla al servizio di ciò che ci ha reso schiavi.

Molte persone purtroppo si arrendono alla prima difficoltà. Il fatto che sia difficile non deve essere una giustificazione per posticipare ad infinitum l’inversione di rotta, confidando che, come per le diete, ci sarà sempre un altro lunedì da cui partire. Più rimandiamo più ci atrofizziamo nel corpo, nella mente e nello spirito. Non siamo eterni, non sappiamo quanti domani avremo a disposizione; dobbiamo tutti fare i conti con la morte, quando saremo chiamati a fare l’ultima e definitiva scelta. Con quale libertà ci presenteremo a quell’appuntamento? Con una libertà allenata o con una atrofizzata? Come saremo in grado nella nostra personale Apocalisse di scegliere l’Essenziale se per tutta la vita non abbiamo allenato la libertà a dirigerla verso l’essenziale e ci siamo tirati indietro di fronte alle difficoltà che l’esercizio della libertà inevitabilmente comporta? Una lettura o rilettura dell’Apocalisse sarebbe consigliata, applicandone i contenuti prima di tutto alla nostra interiorità. In generale, il Vangelo e tutta la Sacra Scrittura hanno qualcosa da dire solo se li applichiamo in primis al nostro mondo interiore e ai nostri tentativi di liberarci dalle nostre schiavitù, perché un’apocalisse si scatena tutte le volte che decidiamo seriamente di iniziare un cammino di liberazione. La nostra interiorità si ribella, si scatena ogni sorta di paura all’idea di rinunciare a quel superfluo che per tanto tempo è stata la nostra (vana) sicurezza; si scatena contro di noi il mondo esterno, in modo particolare si scatenano quelli che hanno colluso con le nostre malattie e che, pertanto, dalla nostra liberazione hanno da perdere i loro guadagni; si scatenano coloro i quali sono comodamente adagiati sulle loro catene e vedono gli sforzi del prossimo verso la libertà come un insulto alla loro (comoda) schiavitù. Insomma: c’è un Mar Rosso da attraversare. Ma tutte queste difficoltà attestano che siamo sulla strada giusta e che, di conseguenza, dobbiamo perseverare perché se perseveriamo anche vinceremo. 

Vinceremo perché siamo bravi? Perché siamo capaci?

No. Se le nostre capacità non le mettiamo al servizio di una vocazione spirituale anch’esse rientrano in quel superfluo che il fuoco della croce brucerà come paglia. Vinceremo perché avremo Dio con noi. La Provvidenza non fa mai mancare gli aiuti a quanti vogliono seriamente liberarsi dalle proprie schiavitù. Vinceremo perché la Donna con il Bambino e Michele hanno già vinto la battaglia contro il drago.





venerdì 14 novembre 2025

Simone di Cirene

Proseguiamo sulla linea tracciata negli ultimi post, quella di considerare il dolore come un momento di verità in cui viene svelato - e separato dal superfluo - l'essenziale. Abbiamo visto che Gesù è accompagnato nella sua personale via crucis da alcune figure che ad uno sguardo distratto potrebbero apparire marginali perché non gli impediscono né la morte né la sofferenza. Ma in realtà non sono marginali per niente perché in quel momento il compito di quelle persone non è evitare a Gesù la sofferenza, ma permettergli di raggiungere l'obiettivo della sua vocazione, della sua personale chiamata, che è quella di essere il Figlio di Dio e che, come tutte le vocazioni, si svela solo nell'esperienza della croce, del dolore.    

Piccola ma importante parentesi: bisogna fare sempre molta attenzione nel fornire spiegazioni sulla sofferenza a chi sta soffrendo. Solo in minima parte il dolore può essere compreso con il logos - cioè con la ragione umana -; che si tratti di logos teologico, filosofico, psicologico o medico, la maggior parte del dolore non può essere compreso ma può essere solo vissuto nell’amore e nella fede. In questo blog si cerca di fare logos perché la conoscenza permette di ridurre la sofferenza ed è giusto accrescerla laddove possibile, ma senza perdere di vista che quando una persona soffre ha soprattutto bisogno di sentirsi amata e di coltivare la speranza che il dolore possa finire e lasciare spazio ad una vita più alta. Speranza che scienza, teologia, filosofia, psicologia da sole non possono alimentare, perché di fronte all’esperienza della morte qualsiasi conoscenza umana deve fermarsi. Finiscono i ragionamenti. Restano solo l’amore e la fede. Restano le persone che alimentano la speranza; quelle persone che, per il fatto di esserci vicine in un momento di dolore, sono esse stesse la speranza. 

Ricordiamo al riguardo il Libro di Giobbe. Quest'ultimo soffre e vorrebbe giustamente essere consolato dagli amici i quali, al contrario, si mettono a fare i teologi della sua sofferenza. Fanno persino gli avvocati di Dio perché Giobbe rimprovera apertamente il Signore per la sua sofferenza. Alla fine interviene Dio in persona a censurare il comportamento degli amici. C’è un momento in cui il logos, la conoscenza, il fornire spiegazioni sono d’impedimento alla speranza. Questo le donne solitamente lo capiscono subito e molto prima degli uomini. La vocazione, il mistero sull’interiorità di una persona non spetta a noi rivelarlo ma a Dio. Quindi c’è un momento in cui bisogna soltanto amare e far tacere il logos. 

Maria, infatti, è accanto a Gesù nelle ore buie della sua passione non per ricordargli la catechesi che il Figlio stesso aveva fatto in precedenza ai suoi discepoli quando aveva detto loro che doveva soffrire molto per realizzare la sua vocazione. Non gli offre nessuna consolazione a buon mercato. Perché tale sarebbe in quel momento la teologia. Gli offre una sola cosa: la tenerezza materna. Troppo spesso dimentichiamo che Gesù è anche vero uomo e, come tutti gli uomini quando soffrono, anche lui chiede che la sofferenza gli venga tolta, o, almeno, alleggerita. Tuttavia, essendo anche vero Spirito, sa bene che per vedere realizzata la propria vocazione deve attraversare - e non evitare - la sofferenza. E a tal scopo accetta umilmente di essere aiutato nel portare la croce da una figura che nel Vangelo è di passaggio, da uno straniero: Simone di Cirene.

[La Passione di Cristo di Ivrea - Crocefissione Sotto le Mura del Castello https://www.lapassionedicristo.com]

Simone di Cirene è, a sua insaputa, la seconda figura essenziale nelle ore terribili della passione di Gesù perché permette a quest’ultimo di portare la croce fino al Golgota e, quindi, di portare a termine la sua missione.

Sappiamo che passava di lì per una (apparente) coincidenza e che viene costretto dai soldati romani ad aiutare Gesù. A differenza di Maria che resta per amore, il Cireneo si trova lì per sbaglio ed entra nella storia della salvezza perché è costretto. Al di là delle sue intenzioni, è una figura essenziale perché permette a Gesù di rialzarsi e di non restare schiacciato sotto il peso della croce. 

Questo è un rischio che tutti noi corriamo quando viviamo un dolore, il rischio cioè di restare schiacciati sotto il peso della sofferenza e non rialzarci più, il che equivale a scivolare dal punto di vista spirituale sul piano inclinato della perdizione. L'Inferno non è nient'altro che il rimanere eternamente schiacciati sotto il peso della croce. È una croce senza salvezza, un dolore senza senso. Di fronte all’esperienza della croce, cioè di fronte ad un dolore che non può essere affrontato con le sole nostre forze o si fa l'esperienza della salvezza o aumenta la frattura, la distanza da Dio. Tertium non datur. La croce non è neutra. È uno spartiacque. Dopo un dolore importante o si diventa migliori o si diventa peggiori. Per questo: quando un dolore importante irrompe nella nostra vita bisogna accettare di farsi aiutare, anche da chi magari lo fa solo perché costretto da una circostanza, dai doveri del proprio stato o per obbedienza ad un’autorità…non importa. È prioritario non rimanere schiacciati, non rimanere per terra. E non possiamo farcela da soli. Di solito gli esseri umani mostrano due atteggiamenti sbagliati di fronte al dolore: o rifiutano di farsi aiutare e, a causa della loro superbia, non riescono a rialzarsi e a superare una sofferenza che ha li messi per terra; oppure confondono il farsi aiutare con il cedere egoisticamente il proprio dolore agli altri. Bisogna invece prendere la propria croce (il proprio dolore) e camminare, proseguire verso la propria meta, che non è il dolore, ma la gioia, una vita più densa di senso e di significato. 

Se Maria è la Donna, è la tenerezza e la dolcezza materne, è il Femminile nella sua massima espressione; Simone di Cirene è il maschile nella sua più importante funzione: quella di rimettere in piedi chi è caduto! Non importa se lo fa sbrigativamente, per costrizione o per convenienza, non importa se non appartiene alla cerchia dei discepoli di Gesù, non importa se è uno straniero. Importa in quel momento che ci sia qualcuno a rimettere in piedi Gesù. È certo che per Simone di Cirene Gesù è solo uno sconosciuto, un imprevisto che gli fa perdere tempo, che lo fa deviare dalla quotidiana routine di una delle tante giornate lavorative al termine della quale stava rincasando. Se ci togliamo la maschera del "theologically correct", dobbiamo ammettere che anche noi incontriamo molte volte Gesù ma, come Simone di Cirene, non lo riconosciamo; vediamo solo degli sconosciuti che ci causano fastidi, ci fanno perdere tempo, ci fanno deviare dalla nostra consueta routine. Senza la Donna non si riconosce in Gesù il Figlio, ma solo un uomo qualsiasi. Senza di lei non si riesce a riconoscere negli imprevisti - piccoli o grandi - della vita l'azione di Dio: si vedono solo gli uomini e loro azioni. Non riusciamo a dire di fronte a quegli eventi della vita che sono più grandi di noi quella frase che Gesù dice a Pilato: Tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto. Cioè non riusciamo a trovare nessun senso agli eventi avversi della vita che non sia la cattiveria degli uomini, la sfortuna, il vento contrario. 

Quindi per attraversare il proprio dolore, per raggiungere la propria meta - che è sempre e solo Gesù sia per chi è formalmente cristiano sia per chi non lo è - è necessario lasciarsi guidare dalla Donna e farsi umilmente aiutare da un uomo. 

mercoledì 12 novembre 2025

Mother Mary

When I find myself in times of trouble, Mother Mary comes to me
Speaking words of wisdom, let it be
And in my hour of darkness she is standing right in front of meSpeaking words of wisdom, let it be

Let it be, let it be, let it be, let it beWhisper words of wisdom, let it be
And when the broken hearted people living in the world agreeThere will be an answer, let it beFor though they may be parted, there is still a chance that they will seeThere will be an answer, let it be
Let it be, let it be, let it be, let it beThere will be an answer, let it be
Let it be, let it be, let it be, let it beWhisper words of wisdom, let it be
Let it be, let it be, let it be, let it beWhisper words of wisdom, let it be, be
And when the night is cloudy there is still a light that shines on meShinin' until tomorrow, let it beI wake up to the sound of music, Mother Mary comes to meSpeaking words of wisdom, let it be
And let it be, let it be, let it be, let it beWhisper words of wisdom, let it be
And let it be, let it be, let it be, let it beWhisper words of wisdom, let it be

(Let it be, The Beatles - 1970)

Nel post precedente si è detto che il dolore ha una dimensione non medicalizzabile e non condivisibile. Una dimensione del tutto individuale e personale. È il calice amaro che ognuno di noi purtroppo deve bere: questa è la notizia negativa. Quella positiva è che in quel calice si svela la vocazione di ognuno di noi; che morendo si rinasce ad una vita più alta. Però il calice va bevuto tutto. Con retta coscienza e senza barare. Potete bere il calice che io bevo? Chiede Gesù ai suoi discepoli spegnendo i loro facili entusiasmi e i sogni di gloria che avevano a lungo coltivato vedendo le folle che lo circondavano per via dei miracoli che compiva. "Non sono venuto per questo", sembra voler dire Gesù. Non è nel miracolo che si svela la vocazione di Gesù, ma nella croce. Vocazione e gloria mundi sono incompatibili: chi vuole la gloria del mondo perde la vocazione; chi vuole la vocazione deve rinunciare alla gloria del mondo. Madre Teresa di Calcutta nonostante avesse vinto un Nobel e incontrava spesso i potenti della terra si teneva lontana dai loro salotti, dalle loro comodità, da tutto il superfluo che circonda da sempre i potenti della terra, e non solo loro. “Ciò che non mi serve mi è di peso”, rispondeva a chi le offriva favori e comodità non necessari alla sua missione. 

Chi cerchi? Chi cercate? Chiede Gesù nel Vangelo a quanti vanno da lui. "Se cerchi la tua vocazione, una vita più vera e più alta, allora vendi tutto e dallo ai poveri e vieni seguimi". È facile vendere tutto e darlo ai poveri? No. È necessario passare per il fuoco della croce: l'oro si prova con il fuoco. È nel fuoco della croce che Gesù riceve dal Padre la vera vocazione di Figlio di Dio e la trasmette a sua madre e ai suoi fratelli, a quelli cioè che hanno saputo attendere e bere insieme a lui il calice amaro. Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. È il fuoco della croce che brucia il superfluo e lascia l’essenziale. La croce quindi è anche un momento di verità. Il superfluo nella vita di Gesù erano i miracoli e le folle; queste ultime dopo aver osannato Gesù per i miracoli ne chiedono ora la condanna a morte gridando: “Crocifiggilo!”

Qual è il nostro superfluo? Quali sono i nostri miracoli? Quali sono le nostre folle? Anche per noi quando verrà il momento della croce, cioè quando verrà il momento della verità, finiranno i miracoli e le folle grideranno: “Crocifiggilo!”. È bene quindi tenere a mente la frase di Madre Teresa di Calcutta, “ciò che non mi serve mi è di peso”, perché tutto il superfluo che ci affanniamo ad accumulare nel momento della verità sarà il nostro principale accusatore. È meglio spogliarsi delle zavorre, del superfluo, per essere pronti alla propria personale chiamata, alla propria vocazione. 

Se il discorso sul dolore e sulla croce finisse qui, ci sarebbe da disperarsi. Ma per fortuna non finisce qui. Il superfluo viene bruciato non per un atto di crudele sadismo da parte di Dio, ma affinché venga alla luce l’essenziale, e, anche, affinché venga sollecitata la libertà umana. Nella croce infatti l’uomo è invitato a fare una scelta: il superfluo o l’essenziale.

Veniamo quindi alla parte più bella: l’essenziale. Nella passione di Gesù l'essenziale sono le persone che gli rimangano a fianco provando ad alleviarne il dolore; le persone che lo aiutano a portare la croce e che, ad uno sguardo superficiale, potrebbero apparire del tutto marginali, perché non evitano a Gesù né la sofferenza e né la morte. Ma l’essenziale, anche nel Vangelo, è invisibile agli occhi. Quando leggiamo la passione di Gesù nei Vangeli siamo subito attratti dalla violenza, dalle urla, dai Giudei, dai capi dei sacerdoti, da Pilato… tutto questo è marginale, è il superfluo. L’essenziale sono le persone che per un puro e gratuito atto d’amore sono con Gesù, quando quest’ultimo appare del tutto “inutile”, sia come uomo che come Dio. E sono soprattutto le donne a seguire Gesù lungo la via crucis, ad asciugargli il sudore misto col sangue, ad offrirgli conforto, calore e vicinanza. Le donne hanno una capacità di amare di gran lunga superiore a quella dell’uomo perché sono capaci di stare nel dolore volontariamente e gratuitamente, per un semplice e puro atto di amore. L’uomo solitamente ci sta solo se è in qualche modo costretto.  

La più importante delle figure femminili che seguono Gesù durante tutta la sua passione è sicuramente la Vergine Maria, la madre di Gesù, colei che ai piedi della croce riceve la vocazione di diventare la madre (spirituale) di tutti gli esseri umani. 

Maria con la sua tenerezza materna ha reso possibile per Gesù l’esperienza della croce e la rende possibile per ognuno di noi. Chi può vivere un dolore senza avere accanto una mamma? Chi può vivere la vita senza il calore e la tenerezza di una madre? Persino Gesù ha avuto bisogno di una madre e ai piedi della croce l’ha donata ad ognuno di noi. Non temere di prendere con te Maria, da allora quando siamo in difficoltà un angelo ripete ad ognuno di noi la frase che si sentì dire Giuseppe. 

Non hai avuto una madre come Maria? Non temere, prendi Maria. Non ti senti amato? Non temere, prendi Maria. Sei finito in un vicolo cieco? Non temere, prendi Maria. Hai perso la speranza? Non temere, prendi Maria. Non riesci a pregare? Non temere, prendi Maria. Non riesci a rivolgerti direttamente a Dio? Non temere, prendi Maria. Ti senti schiacciato dal peso dei tuoi peccati? Non temere, prendi Maria.

Prendi Maria. Invoca Maria. Prega Maria. Va' da Maria. In qualsiasi momento. Nascosti sotto il manto di Maria entreremo in Paradiso anche senza avere il permesso di soggiorno, diceva Don Tonino Bello. Ce l'ha donata Gesù ai piedi della croce; ha ricevuto dal Figlio la vocazione di aiutare spiritualmente ogni essere umano: questa è la sua vocazione: questo è ciò che la rende felice.

Ma che cosa significa esattamente per noi questa vocazione di Maria? Che cosa significa dire che Maria è la madre spirituale di ogni essere umano?

Significa che chi vuole incontrare Gesù e non ricorre a Maria molto difficilmente incontrerà Cristo come Persona, come presenza reale nell’Eucaristia, come presenza reale nella storia, come presenza reale nel fratello, come presenza reale nella propria carne. Senza Maria si è fuori dal mistero dell’incarnazione: si è fuori dalla salvezza. Senza Maria il cristianesimo non è l’incontro con la Persona di Gesù, ma solo l’insieme di tradizioni, idee e valori cristiani: è quindi un cristianesimo senza Cristo. Chi desidera una grazia e non ricorre a Maria il suo desiderio vuol volare senz'ali, scrive Dante nel celebre e bellissimo Inno alla Vergine. 

Il male agisce solitamente in due modi contro Maria: o lascia credere che si possa arrivare a Gesù anche senza di lei, che sia una semplice santa tra le sante o diffonde false devozioni mariane. Se la devozione mariana è vera lo si vede da quanto fa crescere l’intimità con Gesù, perché Maria e Gesù sono inseparabili. Un vero e genuino rapporto con Maria fa aumentare il desiderio di ascoltare la Parola di Dio, di stare davanti al Santissimo, di ricorrere frequentemente al sacramento della Confessione. Con Maria si coglie attraverso la Chiesa Cattolica - in modo particolare attraverso l'azione del Papa - la presenza reale di Cristo nel mondo e nella storia. Con Maria si inizia a riconoscere Cristo nei fratelli, prima in quelli con cui siamo in relazione e poi in quelli che sono lontani e diversi da noi. Con Maria si riconosce la presenza di Cristo nella nostra famiglia, nella nostra storia, ovunque... fino ad arrivare al punto in cui tutto il creato parla di Gesù: un animale, un fiore, un tramonto. Perché tutto è stato fatto per mezzo di lui. 

È Maria quindi che mette accanto ad ognuno di noi il Figlio e ci introduce nel mistero della Trinità



lunedì 10 novembre 2025

La vocazione

Nella lingua inglese la parola che sta per vocazione è più evocativa di quella italiana. In inglese si utilizza il termine calling che letteralmente significa chiamata. Quest’ultimo vocabolo evoca un messaggio - una missione, un compito - che si riceve. Nessuno evidentemente prende il telefono per chiamare se stesso o per recapitare un messaggio a se stesso. Quindi la vocazione non ce la diamo da soli, è la vita che ce la dà o, meglio, ce la offre; sta noi coglierla, sta a noi rispondere alla chiamata o rifiutarla. Non è scontato quest’ultimo passaggio perché siamo davvero liberi di dire: “Eccomi!”, oppure di respingere la vita.

In che modo la vita ci chiama? 

La vita ha un solo modo per bussare alla nostra porta e chiamarci a qualcosa di diverso rispetto ai nostri progetti, ai nostri schemi, alla nostra routine: attraverso gli imprevisti, come ad esempio, un dolore, un lutto, una malattia, una gravidanza non desiderata, ecc. Noi di solito accettiamo le sorprese solo quando sono piacevoli, cioè quando sono in linea con i nostri desideri; ma tutto ciò che è in linea con i nostri desideri non può essere considerato un imprevisto, perché ciò che desideriamo ce lo prefiguriamo, e ciò che è prefigurato è anche aspettato. Gli imprevisti invece sono sempre inaspettati e, quindi, spiacevoli e dolorosi. Solo attraverso questi ultimi la vita può bussare alla nostra porta e mostrarci qualcosa di diverso rispetto al nostro io; se usasse solo i nostri desideri tutta la vita sarebbe semplicemente una proiezione della nostra psicologia; sarebbe il trionfo del narcisismo e, quindi, la morte della vita. Invece è il nostro narcisismo che deve morire per far spazio alla vita. Non che ci sia qualcosa di sbagliato nell’avere dei desideri anzi, è necessario averli: nel post precedente si è parlato dell’importanza di coltivare una passione e di come quest’ultima aiuti le persone a sentirsi vive anche in età avanzata. A patto però di non affezionarvisi troppo altrimenti i desideri diventano dei bastioni che fanno da impedimento ad una dimensione vocazionale più alta. 

Adesso sarà più chiaro perché di fronte alle chiamate della vita non è scontata la nostra risposta: perché quando la vita chiama scombina i nostri piani e i nostri progetti. E non lo fa in modo piacevole. Questo è l’unico modo che abbiamo per far morire il narcisismo ed aprirci veramente alla vita. Il narcisismo non muore facendo mille analisi psicologiche. Freud stesso - con una onestà intellettuale che è merce rara - riteneva che il narcisismo non fosse trattabile con la psicoanalisi. Ed il motivo è evidente: la psicologia si rivolge sempre e solo all’io (nonostante il tentativo di camuffarlo sotto altri nomi): lenisce le ferite dell’io, cerca di soddisfare i bisogni dell’io, aiuta l’io a scoprire e a realizzare i suoi desideri. La psicologia non può che essere al servizio dell’io e, di conseguenza, non può fare nulla quando l’io è troppo ingombrante come nel narcisismo. Anzi, un eccesso di psicologia porta inevitabilmente al narcisismo. Non si parla quasi mai degli effetti collaterali della terapie psicologiche. Si dà per scontato che un trattamento psicologico o è efficace o è neutro ma non si approfondiscono mai i suoi effetti avversi. In medicina ad esempio sappiamo che i farmaci sono terapeutici solo se presi in determinate dosi, se presi in eccesso possono anche portare alla morte. È necessario trovare un equilibrio anche con la psicoterapia: né poca ma nemmeno troppa. Va benissimo ricorrere alla psicologia o alla psichiatria quando il dolore soggettivo (psicologico) è soverchiante ma, allo stesso tempo, bisogna fare attenzione a non interferire con la funzione esistenzialmente sana del dolore psicologico: che è quella di far morire il narcisismo. 

Siccome Dio non gioca a dadi con il mondo - parafrasando Einstein -, il dolore irrompe nella nostra vita con un timing non casuale: irrompe quando un attaccamento narcisistico fa da impedimento ad una più alta vocazione. Di conseguenza, di fronte al dolore non bisogna solo limitarsi a lenirlo ma anche permettergli di scavare dentro di noi ed aiutarci a comprendere qual è la zavorra narcisistica che fa da impedimento ad un rapporto più alto con la vita. Detto in altri termini: quando irrompe un dolore nella vita è perché i tempi sono maturi affinché qualcosa dentro di noi muoia e possa nascere qualcos’altro. 

Non è un passaggio facile, perché il dolore ha una dimensione personale, non condivisibile con gli altri: il mio dolore ha qualcosa da comunicare a me soltanto e non agli altri. Questa è la dimensione più difficile del dolore, perché si soffre e non ci si sente capiti. Bisogna accettare di morire a se stessi. Non c’è altra via. Solo accettando questa morte si rinasce ad una vita nuova, più alta, più autentica, più vera. 

Se, al contrario, si cerca di fuggire da questo snodo critico, medicalizzando continuamente il dolore o condividendolo sempre con gli altri, ci si chiude alla chiamata, si rimane schiavi di se stessi; si rimane nella più seria e più pericolosa schiavitù dell’uomo: si resta soggiogati dal più spietato dittatore che esista: il proprio io.


sabato 8 novembre 2025

Non è mai troppo tardi!

Ho sempre guardato con un misto di invidia, diffidenza e ammirazione chi passa ore e ore in palestra sottoponendosi ad allenamenti estenuanti e a diete ferree. Ho sempre provato invidia e ammirazione per la dedizione che mostrano queste persone, e diffidenza perché non riuscivo a capire come ci si potesse sottoporre ad uno stile di vita così draconiano solo per estetica. 

Anch’io, come molti, nutrivo pregiudizi sul bodybuilding, che più che un vero sport mi sembrava solo l’esaltazione dell’ego, di un machismo ridicolo e anacronistico, di una caricaturale ricorsa a dimensioni muscolari sempre più grandi. Allo stesso tempo però ne ero attratto, ascoltavo spesso le interviste dei bodybuilder per comprendere meglio cosa li motivasse; non riuscivo a capire come molti di loro continuassero a praticare il bodybuilding anche in età avanzata. 

In una di queste interviste, che appunto seguivo con un misto di curiosità e diffidenza, mi colpì una risposta che Sylvester Stallone diede in un famoso programma radiofonico italiano ad uno dei conduttori, il quale sosteneva scherzosamente che per lui fosse ormai troppo tardi iniziare a fare palestra, nonostante avesse molti anni in meno di Stallone. La risposta di quest’ultimo fu ferma e secca, con voce quasi stizzita: Never too late! Non è mai troppo tardi! Mi colpirono la fermezza e il tono serio della risposta che stridevano con il clima leggero del programma. Sul momento ho pensato, “ecco, il solito bodybuilder esaltato che a settant’anni si comporta come un ventenne”, cosa che credo avranno pensato in molti ascoltando quel programma. Tuttavia, a distanza di qualche anno da quell’episodio, mi è capitato di ascoltare un’altra intervista di un altro volto noto del bodybuilding e del cinema americano, Arnold Schwarzenegger. Anche questa volta il riferimento era all’età: veniva chiesto ad Arnold il motivo per cui continuasse ad allentarsi dato che i benefici in termini di massa muscolare alla sua età non sono più gli stessi di quando era giovane. La risposta dell’attore è stata di una naturalezza disarmante: con un sorriso spontaneo e naturale ha sostenuto che era come chiedergli se alla sua età facesse ancora colazione: la palestra è sempre stata tutta la sua vita e avrebbe continuato a praticarla fino a quando gli sarebbe stato possibile, per lui era un’attività naturale come respirare. Qui ho finalmente capito che dietro questa dedizione non c’è solo estetica, ma qualcosa di molto più serio e più vitale: c’è passione! Ed ho compreso quindi anche la fermezza della risposta di Stallone: Never too late! Non è mai troppo tardi… per coltivare la propria passione!

Questo mi ha portato a riflettere sul rischio di dare giudizi affrettati sulle persone fermandoci solo all’apparenza. Quanti errori commettiamo. Quante passioni rischiamo di stroncare inavvertitamente con giudizi affrettati verso chi deve ancora maturare le proprie certezze e non è in grado di ribattere con la stessa prontezza mostrata da Stallone e Schwarzenegger.

Bisogna pertanto essere molto cauti nei giudizi sulle persone, perché non sappiamo quali tasti stiamo toccando e quali corde vitali rischiamo di spezzare. Nel dubbio meglio tacere. 

Ovviamente questo non significa che per seguire la propria passione è lecito fare qualsiasi cosa. Non dovrebbe essere lecito, ad esempio, ricorrere agli steroidi anabolizzanti, purtroppo largamente consentiti nel bodybuilding professionistico. Non dovrebbe essere lecito non solo e non tanto per le conseguenze in termini di salute dell’uso del doping. Non è la salute fisica la motivazione principale per non ricorrere al doping; chi ha una passione vera è disposto a sacrificare la propria vita per quella passione, quindi sapere che si può morire di steroidi - e, quindi, per la propria passione - non lo scalfisce. Ed è comprensibile. Perché per fortuna esistono valori di rango superiore al semplice mantenersi sano. Si è detto in questo post che i valori hanno una gerarchia: esistono dei valori di rango superiore alla salute fisica. D’altra parte nessuno si accosta ad uno sport (o a qualsiasi altra attività) per passione chiedendosi se ciò sta facendo fa bene alla sua salute. Altrimenti non avremmo atleti agonisti perché lo sport praticato ad alti livelli è usurante per il corpo. Non avremmo in generale nessuno disposto a seguire una passione. Oggi infatti le passioni scarseggiano anche perché siamo culturalmente bombardati da messaggi ossessivi che ci incoraggiano a mantenerci sempre sani e giovani. Se la salute è un valore primario scompare la passione: questo è uno dei tanti marker culturali di una civiltà decadente, come più volte denunciato in questo blog.

Ovviamente non intendo dire che dobbiamo ignorare le conseguenze del doping sulla salute, ma che semplicemente la compromissione della propria salute non è un deterrente sufficiente per chi ha una passione.  

Allora se non è la salute qual è il motivo principale per cui non si dovrebbe ricorrere al doping?

Il motivo per cui non bisogna ricorrere al doping è che manipolare a proprio piacimento la biologia del proprio corpo ha seri riflessi in termini esistenziali. Il corpo non è un oggetto, è espressione del nostro essere. E deve essere trattato con la stessa dignità con cui trattiamo la persona nella sua interezza. Non deve essere reificato, mercificato, oggettificato; perché ciò che si fa al corpo si fa alla persona nella sua interezza. Purtroppo viviamo in un’epoca che tende a scindere la biologia dalla cultura, il corpo dalla psiche, la psiche dallo spirito, l’individualità dalla collettività, ecc. In un’esistenza sana tutte queste dimensioni non sono scisse ma integrate. Ovviamente l’integrazione non ci è data a priori, va conquistata. E come per tutte le conquiste ci sono degli ostacoli da superare. Nei tempi che viviamo l’ostacolo principale è una cultura decadente, moribonda, individualista, edonista che sostituisce la passione con il piacere; una cultura che anziché incoraggiare ciò che edifica l’uomo esalta ciò che lo distrugge. In altre epoche storiche probabilmente gli ostacoli all’integrazione dell’uomo erano di altro tipo. Oggi la cultura è il nemico principale: l’ostacolo da abbattere per la propria integrazione. 

Quindi tornando al corpo e al doping per concludere, è necessario preservare la sacralità del corpo che è espressione della sacralità di tutta la persona. L’idea che il corpo (proprio e altrui) possa essere manipolato a proprio piacimento distrugge questa sacralità, aggredisce il velo di mistero che deve essere mantenuto sul proprio corpo e sul corpo altrui, come sulla propria esistenza e sull’esistenza degli altri. Il mistero intrecciato con il sacro alimenta il desiderio, la passione, il gusto della scoperta, e, soprattutto, il senso di aver una vocazione e di doverla scoprire continuamente, a vent’anni come ad ottanta.