lunedì 10 novembre 2025

La vocazione

Nella lingua inglese la parola che sta per vocazione è più evocativa di quella italiana. In inglese si utilizza il termine calling che letteralmente significa chiamata. Quest’ultimo vocabolo evoca un messaggio - una missione, un compito - che si riceve. Nessuno evidentemente prende il telefono per chiamare se stesso o per recapitare un messaggio a se stesso. Quindi la vocazione non ce la diamo da soli, è la vita che ce la dà o, meglio, ce la offre; sta noi coglierla, sta a noi rispondere alla chiamata o rifiutarla. Non è scontato quest’ultimo passaggio perché siamo davvero liberi di dire: “Eccomi!”, oppure di respingere la vita.

In che modo la vita ci chiama? 

La vita ha un solo modo per bussare alla nostra porta e chiamarci a qualcosa di diverso rispetto ai nostri progetti, ai nostri schemi, alla nostra routine: attraverso gli imprevisti, come ad esempio, un dolore, un lutto, una malattia, una gravidanza non desiderata, ecc. Noi di solito accettiamo le sorprese solo quando sono piacevoli, cioè quando sono in linea con i nostri desideri; ma tutto ciò che è in linea con i nostri desideri non può essere considerato un imprevisto, perché ciò che desideriamo ce lo prefiguriamo, e ciò che è prefigurato è anche aspettato. Gli imprevisti invece sono sempre inaspettati e, quindi, spiacevoli e dolorosi. Solo attraverso questi ultimi la vita può bussare alla nostra porta e mostrarci qualcosa di diverso rispetto al nostro io; se usasse solo i nostri desideri tutta la vita sarebbe semplicemente una proiezione della nostra psicologia; sarebbe il trionfo del narcisismo e, quindi, la morte della vita. Invece è il nostro narcisismo che deve morire per far spazio alla vita. Non che ci sia qualcosa di sbagliato nell’avere dei desideri anzi, è necessario averli: nel post precedente si è parlato dell’importanza di coltivare una passione e di come quest’ultima aiuti le persone a sentirsi vive anche in età avanzata. A patto però di non affezionarvisi troppo altrimenti i desideri diventano dei bastioni che fanno da impedimento ad una dimensione vocazionale più alta. 

Adesso sarà più chiaro perché di fronte alle chiamate della vita non è scontata la nostra risposta: perché quando la vita chiama scombina i nostri piani e i nostri progetti. E non lo fa in modo piacevole. Questo è l’unico modo che abbiamo per far morire il narcisismo ed aprirci veramente alla vita. Il narcisismo non muore facendo mille analisi psicologiche. Freud stesso - con una onestà intellettuale che è merce rara - riteneva che il narcisismo non fosse trattabile con la psicoanalisi. Ed il motivo è evidente: la psicologia si rivolge sempre e solo all’io (nonostante il tentativo di camuffarlo sotto altri nomi): lenisce le ferite dell’io, cerca di soddisfare i bisogni dell’io, aiuta l’io a scoprire e a realizzare i suoi desideri. La psicologia non può che essere al servizio dell’io e, di conseguenza, non può fare nulla quando l’io è troppo ingombrante come nel narcisismo. Anzi, un eccesso di psicologia porta inevitabilmente al narcisismo. Non si parla quasi mai degli effetti collaterali della terapie psicologiche. Si dà per scontato che un trattamento psicologico o è efficace o è neutro ma non si approfondiscono mai i suoi effetti avversi. In medicina ad esempio sappiamo che i farmaci sono terapeutici solo se presi in determinate dosi, se presi in eccesso possono anche portare alla morte. È necessario trovare un equilibrio anche con la psicoterapia: né poca ma nemmeno troppa. Va benissimo ricorrere alla psicologia o alla psichiatria quando il dolore soggettivo (psicologico) è soverchiante ma, allo stesso tempo, bisogna fare attenzione a non interferire con la funzione esistenzialmente sana del dolore psicologico: che è quella di far morire il narcisismo. 

Siccome Dio non gioca a dadi con il mondo - parafrasando Einstein -, il dolore irrompe nella nostra vita con un timing non casuale: irrompe quando un attaccamento narcisistico fa da impedimento ad una più alta vocazione. Di conseguenza, di fronte al dolore non bisogna solo limitarsi a lenirlo ma anche permettergli di scavare dentro di noi ed aiutarci a comprendere qual è la zavorra narcisistica che fa da impedimento ad un rapporto più alto con la vita. Detto in altri termini: quando irrompe un dolore nella vita è perché i tempi sono maturi affinché qualcosa dentro di noi muoia e possa nascere qualcos’altro. 

Non è un passaggio facile, perché il dolore ha una dimensione personale, non condivisibile con gli altri: il mio dolore ha qualcosa da comunicare a me soltanto e non agli altri. Questa è la dimensione più difficile del dolore, perché si soffre e non ci si sente capiti. Bisogna accettare di morire a se stessi. Non c’è altra via. Solo accettando questa morte si rinasce ad una vita nuova, più alta, più autentica, più vera. 

Se, al contrario, si cerca di fuggire da questo snodo critico, medicalizzando continuamente il dolore o condividendolo sempre con gli altri, ci si chiude alla chiamata, si rimane schiavi di se stessi; si rimane nella più seria e più pericolosa schiavitù dell’uomo: si resta soggiogati dal più spietato dittatore che esista: il proprio io.


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