In Europa assistiamo ad un progressivo restringimento degli spazi di partecipazione alla vita pubblica e sociale delle famiglie appartenenti alle classi sociali meno abbienti.
Ciò è evidente ad ogni livello. Dalla limitazione della libertà di espressione sui social network, che sono lo spazio del “free speech” popolare, alla privatizzazione del calcio, che è - sarebbe meglio dire era - lo sport popolare per eccellenza.
Ovviamente la censura e la restrizione degli spazi di partecipazione non vengono mai presentati come tali, ma sempre sotto qualche apparente finalità positiva come, la necessità di tutelare la scienza dall’ignoranza della massa, impedire la disinformazione e l’hate speech, rinnovare strutture sportive vecchie, ecc.
La sostanza è sempre la stessa: ai più è impedita ogni forma di partecipazione alla vita sociale a beneficio dei pochi. La libertà è partecipazione, diceva Giorgio Gaber che apparteneva a quelle élite culturali europee che una volta consideravano la libertà come sinonimo di partecipazione ed oggi invece fanno di tutto per impedirla. Non solo, chi detiene il potere di fare cultura, di fare scienza, di fare informazione può disinformare e ricorrere impunemente all’hate speech nei confronti di chi la pensa diversamente (lo vediamo tutti giorni e l’abbiamo visto in modo particolare nel periodo della pandemia), ma con ipocrisia impedisce a tutti gli altri di ricorrere alla disinformazione e all'hate speech.
L’Europa è diventata un abito di lusso ad uso esclusivo delle élite, le quali, mentre si interessano alle sorti dei poveri degli altri continenti, non fanno nulla per ridurre la miseria dei poveri autoctoni: anzi, la aumentano.
Hanno tolto alla povera gente persino il gioco del calcio, che una volta le élite guardavano con diffidenza preferendo sport più nobili, come il tennis, dove non c’è contatto fisico e in cui è la palla ad andare dal giocatore e non il giocatore a dover rincorrere un pallone magari sbucciandosi un ginocchio per le strade della propria città.
Ormai per strada non può essere praticato più alcun tipo di sport, per ovvi motivi urbanistici e di sicurezza. In compenso però hanno riempito le città di piste ciclabili che in Italia nessuno usa perché nessuno le ha chieste. I biglietti per assistere ad una partita di calcio in uno stadio sono diventati un salasso; per guardare le partite da casa bisogna permettersi costosi abbonamenti alle varie piattaforme di pay-tv, dalle quali tanti esperti propongono fantasiose soluzioni per la scomparsa dei talenti ignorando l’elefante nella stanza: non abbiamo più talenti perché sono stati estromessi i ceti sociali che quei talenti da sempre li fornivano.
E questo riguarda ogni settore della società.
Una società che estromette i poveri perché sono grezzi e non parlano il politicamente corretto, è una società senza gambe, è un’anatra zoppa perché i poveri da sempre sono la maggioranza della popolazione e sono l’esame di realtà delle élite.
Da che cosa si misura la reale capace di una élite di guidare una società?
Da quanto riesce ad integrare nella vita sociale le persone meno fortunate e ad elevarle dallo loro miseria, che non è solo economica, ma anche culturale. Da quanto riesce a far sentire tutti gli strati sociali, indipendentemente dalle differenze di reddito, parte di un destino comune. Da quanto è capace di permettere ad ognuno di avere il proprio ruolo nella società, e non solo a chi è ricco e a chi dispone di un vocabolario politicamente corretto.
Interessarsi alle sorti dei poveri degli altri continenti quando ai propri viene precluso ogni spazio di partecipazione è falsa coscienza, è falsa filantropia. La quale serve solo ad alimentare quel senso di superiorità che allontana sempre più le élite dalla realtà avvitandole in una pericolosa autoreferenzialità.

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