venerdì 28 novembre 2025

Come cade una civiltà

 La caduta di Roma 



Quando un paese subisce una disfatta, inventa o esagera dei "gloriosi episodi" su cui richiamare l'attenzione dei contemporanei e dei posteri e distrarla dal risultato finale e complessivo. Ecco perché gli "eroi" allignano soprattutto negli eserciti battuti. Quelli che vincono non ne hanno bisogno. Cesare, per esempio, nei suoi Commentari non ne cita nessuno (p. 50).

Ma da questi guadagni [successivi alla vittoria nella seconda guerra punica] prese anche l'avvio una trasformazione della vita romana che non doveva rivelarsi benefica per le sorti dell'Urbe. (...) I tributi che pagavano gli stati soggetti, a suon di miliardi, anno per anno, praticamente facevano di ogni romano un rentier e lo svogliavano dal lavoro. (...) I costumi si addolcirono e ammollirono. Sorse quella che oggi si chiamerebbe una social life con salotti intellettuali e progressisti. La fede negli dèi si indebolì come quella nella democrazia, (...). La crisi non precipitò subito. Ma è in questi anni, seguiti alla catastrofe di Cartagine, che se ne creano le premesse (p. 131).

(...) Catone deplorò, giustamente, che per la prima volta nella storia di Roma i meriti combattentistici di un imputato facessero ostacolo alla giustizia, e in questo denunziò il primo trapelare di un individualismo che presto avrebbe corrotto la società col culto dell'eroe e distrutto la democrazia (p. 146).

A un uomo come lui [Polibio], che arrivava fresco di Grecia, dove lo scetticismo e l'incredulità non avevano più limiti, si capisce che i romani, i quali un barlume di fede lo conservavano, dovevano far l'effetto di altrettanti monaci. Ma si trattava proprio di un barlume (...) (p. 149).

Da quel momento la liturgia greca si diffuse (...). E il risultato fu che, da austera e piuttosto lugubre, qual era stata sino ad allora, diventò allegra e carnevalesca. Nel 186 il Senato apprese con allarmato stupore che il popolino si era particolarmente affezionato a Diòniso, ne aveva fatto il suo santo preferito, riempiva il suo tempio, e gli sacrificava con particolare entusiasmo. Se ne capisce facilmente la ragione: i sacrifici consistevano in pantagrueliche mangiate, in gagliarde bevute, e in un disfrenamento dei rapporti fra uomini e donne. Insomma, erano tutto fuorché "sacrifici" (p. 150). 

Ma tutto questo allentamento di freni avvenne soprattutto perché spirava in aria un vento di "libero pensiero". Lo avevano portato i "greculi", come li chiamavano per dileggio i romani, un dileggio che non impediva loro di prenderseli per maestri. Prigionieri di guerra importati da laggiù in condizione di ostaggi e di schiavi, furono infatti i primi grammatici, retori e filosofi, che aprirono scuole a Roma (p. 155).

Fu in uno di questi salotti [degli ambienti "culturali" del tempo] che si preparò la rivoluzione. La quale, contrariamente a quel che si crede, non nasce mai nelle classi proletarie, che poi le prestano la mano d'opera; ma in quelle alte, aristocratiche e borghesi, che poi ne fanno le spese. Essa è sempre, più o meno, una forma di suicidio. Una classe non si elimina che quando si è già eliminata da sé (p. 157).

Cimbri e teutoni si erano rifatti vivi, più numerosi e aggressivi che mai, rotolando come una valanga dalla Germania alla Francia. (...) E quando tornarono sui loro passi per assalire l'Italia, Mario, console da quattro anni, era pronto a riceverli. 
Egli aveva preparato un nuovo esercito, che costituì la sua vera grande rivoluzione, quella che poi fornì le armi a suo nipote Cesare. Aveva capito che non c'era più da fare assegnamento sui cittadini che si chiamavano "atti alle armi" solo perché, iscritti a una delle cinque classi, erano tenuti al servizio militare, ma non volevano prestarlo. E si rivolse agli altri, ai nullatenenti, ai disperati, attirandoli con una buona paga e con la promessa di bottino e di lauta assegnazione di terre dopo la vittoria. Era la sostituzione di un esercito mercenario a quello nazionale: operazione rischiosa e, alla lunga, catastrofica, ma resa necessaria dal decadimento della società romana (pp. 167-168).

Poiché tutto dipendeva dal denaro, il denaro era diventato la sola preoccupazioni di tutti (...). Roma era ormai diventata una pompa che succhiava quattrini in tutto il suo Impero per consentire a una categoria di satrapi una vita sempre più fastosa e un lusso sempre più insolente (p. 182).

Clodia, la moglie di Quinto Cecilio Metello, era quei tempi la "prima signora" della città, e faceva scuola alle altre. Essa era femminista (...), affermava il diritto alla poligamia anche per le donne, e lo praticò senza risparmio, (...). Il matrimonio con mano, cioè quello che non ammetteva il divorzio, era praticamente scomparso, appunto per consentire ai coniugi di rinnegarlo quando volevano. E bastava, per farlo, una semplice lettera. Figli non se ne volevano, perché sarebbero stati un impaccio (p. 186).

I gusti letterari di questa società ricca e frivola non si orientarono verso il più grande poeta e scrittore del tempo, Lucrezio. (...) A furoreggiare era Catullo, poeta facile e sentimentale, qualcosa di mezzo fra Gozzano e Géraldy (p. 187).

(...) tutti i romani ricchi, diventati sensibili alla "cultura" anche quando non ne avevano. (...) Il libro era diventato guarnitura d'obbligo in ogni casa che si rispettasse, anche se poi non lo si leggeva (...) (p. 246).

In genere, sebbene la si sia chiamata Periodo Aureo, l'epoca di Augusto non vide una fioritura letteraria e artistica da confrontarsi con quella della Grecia di Pericle o dell'Italia del Rinascimento. Sotto quell'imperatore borghese, si sviluppò un gusto altrettanto borghese che prediligeva ciò che è medio, e ciò che è medio spesso è mediocre (p. 247). 

S'ingrassava. La statuaria di questo periodo, a confrontarla con quella della Roma stoica, tutta di figure secche e angolose, ci mostra un'umanità allentata e arrotondita dall'ozio e dalle indulgenze dietetiche (p. 296).

La depressione di Wall Street nel 1929 ebbe il suo precedente a Roma quando Augusto, tornando dall'Egitto con l'immenso tesoro di quel paese in tasca, lo mise in circolazione per rianimare i traffici che languivano. (...) Le industrie e le botteghe che vi attingevano non poterono pagare i fornitori e dovettero chiudere anch'esse. Il panico dilagò. Tutti corsero a ritirare i loro depositi dalle banche (pp. 304-305).

Quando Augusto assunse il potere, il calendario romano conosceva settantasei giorni di festa, press'a poco come oggi; quando il suo ultimo successore ne decadde, ce n'erano centosettantacinque, cioè una festa un giorno sì ed uno no (p. 306).

Mentre il teatro scadeva così nella rivista di varietà, sempre più cresceva la fortuna del Circo (p. 307).

Il primo numero fu la presentazione di animali esotici, molti dei quali i romani non avevano ancora mai visto (p. 308).

Seguivano i combattimenti fra gladiatori, (...) Roma e i suoi imperatori non potevano fare a meno di questa carne umana da macello (p. 309).

Questo modo di divertirsi al sangue e alla torture non sollevava obbiezioni nemmeno fra i moralisti più severi (p. 310).

Soltanto Seneca ci ha lasciato una condanna dei giuochi gladiatori che dice di non aver mai frequentato. Egli andò a visitare il Circo Massimo una volta sola, e rimase sbigottito. "L'uomo, la cosa all'uomo più sacra, qui viene ucciso per sport e divertimento" disse tornando a casa (p. 311).

Era il 31 dicembre del 192 dopo Cristo. Cominciava la grande anarchia. (...) Il Senato era caduto in basso, (...) (p. 334-335).

Settimio governò per diciassette anni, rivolgendosi al Senato solo per impartirgli ordini, e quasi sempre guerreggiando. Egli introdusse una grande e pericolosa novità: il servizio militare obbligatorio per tutti, ad eccezione degli italiani, ai quali invece era proibito. Era il riconoscimento della decadenza guerriera del nostro paese e della sua irrimediabilità (p. 336).

Dopo Nerone, l'ostilità nei loro riguardi [dei cristiani] diventò un'ondata di fondo, e la legge che proclamava delitto capitale la professione della nuova fede non fu il ghiribizzo di un imperatore a suggerirla, ma un fremito di odio collettivo a suscitarla. (...) La persecuzione cominciò a diventare sistematica con Settimio Severo che proclamò delitto il battesimo. (...) Sei anni dopo, sotto Valeriano, il papa stesso, Sisto II, fu messo a morte. (...) e allora l'imperatore [Diocleziano] ordinò che tutte le chiese cristiane fossero rase al suolo, tutti i loro beni confiscati, i loro libri bruciati, i loro adepti uccisi (pp. 354-355).

Egli [Costantino] doveva essere rimasto molto colpito dalla superiore moralità dei cristiani, dalla decenza della loro vita, (...). Essi avevano formidabili qualità di pazienza e di disciplina. E ormai, se si voleva trovare un buon scrittore, un bravo avvocato, un funzionario onesto e competente, era fra loro che bisognava cercarlo. Non c'era, si può dire, città in cui il vescovo non fosse migliore del prefetto (p. 357).

Lo trucidarono [Stilicone, generale teutonico noto per le sue virtù] in una chiesa, a Ravenna. E forse il più stupido, ignobile e catastrofico dei delitti che siano stati commessi in nome di Roma. Esso non soltanto privò del suo miglior servitore l'Impero, ma fece capire a tutti i barbari, che ancora gli erano fedeli, che cosa esso fosse diventato. Erano costoro i migliori funzionari e soldati che ancora reggevano la baracca. Essi credevano al prestigio di Roma. E Roma, uccidendo Stilicone, lo distrusse con le sue mani.
Da allora tutto precipitò. Alarico, invece di venire in Italia come alleato, vi giunse da conquistatore (p. 379).

L'impero era già tutto in mano ai barbari (...). Un ultimo sprazzo di orgoglio e di coraggio la romanità lo dava soltanto in Africa, dove il generale Bonifacio, già condannato per alto tradimento, e il vescovo Agostino, assediati a Ippona, resistevano ai vandali di Genserico. (...) Barbari erano coloro che sconfiggevano altri barbari (...) (pp. 380-381).

Nel 452, Attila ricomparve. Ma stavolta non attaccava la Gallia, sibbene l'Italia stessa (p. 381).

La leggenda vuole che Attila s'impaurisse alla minaccia di essere scomunicato [da Papa Leone I] se osava attaccare Roma. (...), invece di passar l'Appennino, ripassò le Alpi, e l'anno dopo morì (p. 382). 

Oreste proclamò sovrano suo figlio, Romolo Augusto. Una sorte ironica volle dare a questo ragazzo, destinato ad essere l'ultimo imperatore di Roma, il nome del primo (p. 384).

Qui finisce la nostra storia. Come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali interni (p. 385).

(estratti di Storia di Roma di Indro Montanelli).

 

La caduta di Roma non fu rettilinea e inevitabile come il moto di caduta libera di un corpo sottoposto all’azione della forza di gravità. Fu rallentata da imperatori illuminati (come Adriano) e da pensatori profondi e acuti (come Seneca) che diedero nuova linfa alla civiltà romana prolungandone la vita. Roma crollò sicuramente per una degenerazione di costumi ma, prima ancora, per quel conformismo sociale misto ad egocentrismo che porta l’uomo ad accomodarsi sulle degenerazioni del suo tempo; perché il suo tempo è l’unico che gli è dato da vivere e, quindi, non può essere così malvagio. Ed in parte è vero, il tempo - inteso come mero arco temporale - che ci è dato da vivere non è malvagio, è prezioso; a patto di usarlo però per contribuire alla costruzione di una civiltà nascente o rallentare la caduta di una civiltà senescente. 

Altrimenti è tempo perduto.

Per non sprecare il proprio tempo ci vuole in primis un sano senso realtà, che è dato non solo dalla conoscenza della propria storia individuale ma anche di quella collettiva. Così come un settantenne che si atteggia a ventenne - e viceversa - apparirebbe patetico, allo stesso modo è quantomeno naive un uomo che non sa collocare la sua civiltà in una prospettiva storica. Un uomo che vive ignaro di qualsiasi consapevolezza storica è un uomo che, inevitabilmente, mancherà di profondità psicologica, la quale si nutre sempre di una prospettiva storica - individuale e sociale -. Senza questa prospettiva potremmo trovarci a dare del latte con il biberon ad un settantenne e un bastone ad un neonato. 

Gli uomini degenerano, prima ancora che per cattiveria, per ignoranza; la quale non è una giustificazione quando volutamente ci si ostina a non conoscere ciò che, in qualità di esseri umani, avremmo l’obbligo di conoscere.

Nessun commento:

Posta un commento

L’Europa ed il trauma non risolto

L’Europa è bloccata internamente da un trauma non risolto il quale, come tutti i traumi, presenta delle manifestazioni tipiche: negazione (d...