giovedì 30 ottobre 2025

Liberare la vita dal bisogno di controllo

Noi chiamiamo “vita” tutto ciò che rientra nei nostri piani, nei nostri progetti; coltiviamo così la grande illusione di poter controllare la nostra esistenza e quella degli altri. Ancora di più: pensiamo che la vita sia solo ciò che cade sotto il nostro controllo, sia solo ciò che combacia perfettamente con le nostre pianificazioni; gli imprevisti invece sarebbero degli errori di percorso da ridurre il più possibile e che in un mondo ideale non dovrebbero esserci. L’uomo culla l’illusione (delirante) che un giorno grazie al progresso tecnico-scientifico tutto sarà prevedibile e controllabile. 
Si è già detto in questo blog che di scienza molto parla chi poco la pratica, perché chiunque pratica la scienza seriamente sa che il rigore scientifico non serve a controllare la vita ma a controllare che le nostre affermazioni siano aderenti alla realtà, cioè a verificare quanto c'è di vero in quello che diciamo (nei limiti dell’intelletto umano); in questo modo ovviamente riusciamo a conoscere qualcosa della realtà e, quindi, a prevedere e a prevenire alcuni pericoli, ma pensare che la funzione e, soprattutto, la bellezza della scienza si riducano a questo è tipico di chi non solo non pratica la scienza, ma interpreta la vita come una difesa dagli imprevisti. La bellezza della scienza e della vita sta nel piacere della scoperta, nell’incertezza di intraprendere un percorso senza sapere con esattezza dove porterà - molte scoperte scientifiche infatti sono avvenute per caso o per esiti non previsti dallo sperimentatore -. Chi non è aperto all'incertezza, all'imprevisto, al dubbio non è aperto né alla scienza e nemmeno alla vita... That's life! Si chiama vita perché non la controlliamo noi, se la controllassimo noi non sarebbe più vita, ma abitudine. Che è peggio della morte biologica quando prende il posto della vita. Molte persone sono morte ancora prima di morire perché hanno soffocato la vita nell'abitudine, nella routine, nella burocrazia, nelle pratiche da evadere; per cui quando moriranno sulla loro lapide si potrà incidere il seguente epitaffio: “È stata evasa l’ultima pratica". 

Quanto tempo perso a pianificare minuziosamente ogni aspetto della realtà, a verificare ossessivamente se abbiamo chiuso bene tutti i "rubinetti" della nostra esistenza - e li abbiamo chiusi infatti così bene da non farci passare più nemmeno una goccia di vita -. Abbiamo intellettualizzato a tal punto tutta questa messinscena da darle pure una terminologia pseudotecnica: la chiamiamo "difesa contro l'angoscia di morte". In realtà sono difese contro la vita. Questi controlli continui sono opere morte; siamo morti ancora prima di morire. Non esiste nessuna difesa contro la morte. O si vive o si muore, non esiste una zona franca in cui non siamo né vivi né morti, in cui coltivare l’illusione di mettere in pausa sia la vita che la morte. 

In questa messinscena con la quale scambiamo la vita con la morte e la verità con la menzogna, siamo convinti che questo esasperato bisogno di controllo sia l'espressione di un sano senso di responsabilità.

Ci sono studi di psicologia cognitiva che mostrano come l'ossessivo bisogno di controllo sia proprio una difesa contro la responsabilità. Come ha acutamente mostrato il Prof. Francesco Mancini, chi mette in atto comportamenti compulsivi di controllo non è mosso da una tensione altruistica ad evitare un'eventuale sventura; è solo interessato che non sia lui ad essere incolpato di un possibile disastro: se l'ossessivo ha infatti la certezza che non sarà ritenuto responsabile di una eventuale sciagura, non mette più in atto i suoi controlli e i suoi rituali ossessivi.

Pertanto il bisogno di controllo è accompagnato da una sorella gemella: la paura di assumersi delle responsabilità. Paura che tiene bloccate le persone nell’indecisione. Perché se si prende una decisione c’è il rischio di sbagliare, e si sbaglia c’è il rischio di essere ritenuti responsabili (della decisione presa). Quindi meglio non esporsi, non assumersi alcuna responsabilità. 

Oltre ai contributi che provengono dalla psicologia cognitiva, c’è un famoso episodio storico che è la plastica fotografia di quanto appena detto: la battaglia di Caporetto. Sentiamo cosa dice Indro Montanelli della storica disfatta che costò all'Italia 12.000 morti, 30.000 feriti, quasi 300.000 prigionieri, una perdita di territorio di circa 14.000 km², e la frettolosa chiamata alle armi dei ragazzi del 1899 (molti dei quali non avevano ancora compiuto diciott’anni):

“Lo «spirito d’iniziativa» – cioè la prontezza dei riflessi, l’inventiva, la fantasia – veniva esaltato solo nel «Regolamento» e nei pedestri e antiquati manuali di tattica. In realtà quella militare era una burocrazia resa ancora più rigida dall’uniforme, per la quale lo spirito d’iniziativa era sinonimo d’insubordinazione. Ho conosciuto dei Generali che avevano più paura delle responsabilità che del nemico. E Rommel, nei suoi ricordi di Caporetto, racconta di essere rimasto sbalordito dalla incapacità dei comandanti italiani, quando si videro presi da tergo, di adeguarsi alla nuova situazione. È noto che seicento cannoni rimasero puntati verso le alture, anche quando fu chiaro che gli Austro-tedeschi attaccavano lungo i fondivalle, perché il comandante non voleva assumersi la responsabilità di cambiarne la postazione. Di questi episodi, nella seconda guerra mondiale, ce ne furono a centinaia.”

L'ultima frase di Indro Montanelli è un monito ad apprendere dalla Storia perché ciò che da essa non si impara si è destinati a riviverlo.

In conclusione: l'unico controllo che dovremmo preoccuparci di effettuare è verificare se siamo ancora vivi. 

Da cosa ci accorgiamo di essere ancora vivi?

Da quanto siamo aperti all'incertezza, all'imprevisto, al dubbio; da quanto siamo disposti ad assumerci la responsabilità di ciò che abbiamo scelto e, soprattutto, di ciò che non abbiamo scelto ma che la vita ci ha posto di fronte. 

E allora il Piave smetterà di mormorare per il sangue versato e tornerà a sorridere per il fluire della vita..




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