giovedì 6 novembre 2025

Gli stati emotivi interni

Ognuno di noi prova prevalentemente alcuni stati emotivi negativi: c’è chi è più incline a provare noia; chi è più incline a provare ansia, paura e tristezza; chi è più incline a provare vergogna. Il mondo interno di ognuno di noi è caratterizzato da alcuni stati emotivi negativi prevalenti, che sono il frutto del temperamento e di precoci esperienze negative. Il temperamento, secondo il noto psichiatra e genetista americano Robert Cloninger, è la predisposizione, su base biologica e innata, a produrre in eccesso o in difetto alcuni neurotrasmettitori - in modo particolare, dopamina, serotonina e noradrenalina -. Il temperamento quindi è la predisposizione biologica verso una determinata sofferenza mentale che ognuno di noi si porta con sé dalla nascita. Ovviamente anche nel campo della salute mentale la predisposizione di per sé non è sufficiente a causare l'insorgenza di un disturbo, sono necessari anche fattori ambientali; tuttavia, è interessante sapere che tutti nasciamo con una predisposizione biologica alla sofferenza mentale, perché questo potrebbe contribuire a ridurre lo stigma associato alla malattia mentale; e a riconciliarci con la nostra debolezza perché la natura stessa rigetta la perfezione. Pertanto essere sani non equivale ad essere perfetti e a non soffrire mai. 

Serotonina, dopamina e noradrenalina influenzano in modo particolare la frequenza e l’intensità con cui proviamo alcune categorie di emozioni come, noia, ansia, paura e tristezza. In alcune persone l’attività dopaminergica è bassa e ciò li porta ad annoiarsi facilmente e ad aver bisogno di stimoli forti e pericolosi per ripristinare un adeguato livello di dopamina: hanno quindi un temperamento che è caratterizzato dal Novelty Seeking (ricerca della novità). Questo temperamento può portare alle dipendenze da sostanze, all’impulsività e a esporsi a situazioni rischiose. In altre persone è bassa l'attività della noradrenalina e a causa di ciò hanno maggior bisogno di gratificazioni e di rinforzi sociali (lodi, approvazioni, ecc.): questo temperamento è definito Reward Dependence (dipendenza dalla ricompensa) ed è associato a quei disturbi mentali caratterizzati da una marcata sensibilità al giudizio sociale. In altre persone è l’attività serotoninergica ad essere inadeguata e ciò li porta ad una maggiore paura dell'ignoto ed una maggiore facilità a provare tristezza di fronte alle perdite: hanno un temperamento che è definito Harm Evoidance (evitamento del danno). Quest'ultimo temperamento determina una predisposizione ai disturbi d'ansia e depressivi (i moderni antidepressivi agiscono infatti ristabilendo un adeguato livello di serotonina all'interno delle cellule nervose e vengono detti pertanto inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina - SSRI). Ovviamente dopamina, serotonina e noradrenalina non agiscono a compartimenti stagni, ma le loro azioni si influenzano a vicenda. Se ho un basso livello di noradrenalina nelle mie cellule nervose quindi ho un temperamento caratterizzato da Reward Dependance, cercherò gratificazioni sociali per ripristinare un adeguato livello di noradrenalina; se ottengo tali gratificazioni ciò influenzerà positivamente anche l’attività della dopamina e della serotonina: mi sentirò di buon umore ed energico. Se, al contrario, non riesco ad ottenerle mi sentirò triste e poco energico. 

Tristezza, paura e noia sono quindi emozioni che risultano fortemente influenzate dall'azione dei citati neurotrasmettitori, la cui attività è soggetta ad una variabilità su base biologica e, quindi, innata. Poi ci sono emozioni negative, come la vergogna, che non sono associate a specifici neurotrasmettitori e che, pertanto, vengono definite emozioni sociali, in quanto sono meno influenzate dalla biologia e più dalle interazioni con altri esseri umani. E questo ci porta alle precoci esperienze negative che, insieme, al temperamento contribuiscono a rendere alcune emozioni negative prevalenti nel nostro mondo interno. Esperienze di abbandono e di trascuratezza, umiliazioni e violenze vissute nell’infanzia accentuano la predisposizione temperamentale a provare determinate emozioni. Quando i tentativi di regolare l'intensità di queste emozioni negative non vanno a buon fine oppure quando i tentativi di regolare le emozioni diventano essi stessi un problema (come nel caso delle dipendenze) ci troviamo di fronte alla vera e propria patologia mentale.

È importante riconoscere quali sono gli stati emotivi negativi che proviamo con più frequenza e quali sono le situazioni che li attivano - i trigger come vengono definiti in psicologia - perché un'adeguata gestione emotiva non può prescindere da questa consapevolezza. Dobbiamo anche riconoscere ciò che facciamo per regolare questi stati emotivi, le strategie di coping come vengono definiti in psicologia, e verificare quali tra queste strategie sono problematiche, cioè creano più problemi di quanti ne vorrebbero risolvere. Ricorrere alla cocaina per gestire la noia non è un'adeguata strategia di coping. È evidente e su questo siamo tutti d'accordo. Meno evidente è che non è allo stesso modo appropriato chiedere continue rassicurazioni a qualcuno per gestire l'ansia, perché in questo caso si usa una persona alla stessa stregua di una sostanza psicotropa. Frequentemente usiamo le persone come regolatori esterni delle nostre emozioni. Ad esempio, quando cerchiamo una persona soltanto solo per distrarci la stiamo usando come una sostanza, come un regolatore esterno delle nostre emozioni. O quando cerchiamo qualcuno solo per avere rapporti sessuali. O quando cerchiamo gli altri solo per ricevere lodi e approvazione, o ascolto e conforto. Gli esempi possono essere infiniti. È importante soffermarsi su questo aspetto perché viviamo in un’epoca che considera il benessere un valore supremo per ottenere il quale riteniamo che tutto sia lecito. Salvo poi lamentarci degli odiosi fenomeni di violenza che caratterizzano la nostra società - di cui le prime vittime sono le donne -. Per ridurre questi fenomeni bisogna ripristinare quelle strutture morali che decenni di narcisismo culturale hanno distrutto. Le strutture morali solitamente non sono simpatiche perché pongono un limite al nostro benessere, perché affermano espressamente che per stare bene non ci è lecito fare qualsiasi cosa. 

E cosa in modo particolare non è lecito o, almeno, non dovrebbe esserlo? Non è lecito usare le persone come oggetti da cui ricavare piacere o - che è lo stesso - usarle come sostanze per alleviare le emozioni negative. Questo vale sia per i fenomeni di violenza gravi e manifesti e sia per tutte le volte che usiamo le persone solo in funzione del benessere che possiamo ricavarne. L'uso narcisistico delle persone distrugge le relazioni e, di conseguenza, noi stessi che senza le relazioni non possiamo vivere. I suicidi, le violenze, i divorzi, ecc. che caratterizzano il nostro tempo non sono semplicemente l'espressione di disagi psicologici ma sono manifestazione di un più profondo disagio sociale e culturale di una civiltà che si alimenta, che incoraggia, che esalta ciò che la distrugge. 

Questo è un terreno su cui non si può indietreggiare, anzi, su cui bisogna riprendere ad avanzare perché abbiamo indietreggiato fin troppo: non è lecito mercificare nessuna persona (nemmeno noi stessi ovviamente) indipendentemente dallo scopo, fosse anche uno scopo giusto come quello di ridurre la sofferenza mentale. Un fine giusto non giustifica mezzi sbagliati. 

Le relazioni tra due adulti devono essere caratterizzate da reciprocità. È corretto chiedere l’aiuto di qualcuno quando stiamo male, ma così come cerchiamo ascolto e conforto da una persona allo stesso modo dobbiamo anche essere disposti a offrire ascolto a quella stessa persona. Così come prendiamo da una relazione dobbiamo anche dare, sempre nella stessa relazione. Altrimenti non è una relazione sana. 

La reciprocità deve esserci anche nella relazione paziente-psicologo. Il fatto che un paziente paghi non lo autorizza ad usare lo psicologo come una sostanza, come un regolatore delle proprie emozioni. E né lo psicologo deve farsi usare in questo modo. Gianni Liotti, uno dei massimi esponenti del cognitivismo italiano, sosteneva che la relazione tra un terapeuta ed un paziente quando funziona si avvicina ad una relazione tra due amici. Ovviamente non intendeva sostenere che lo psicologo debba frequentare un paziente fuori dalle sedute o che debba ricercare il supporto del paziente - c’è un livello di asimmetria che deve essere mantenuto -. Intendeva dire che la relazione con lo psicologo deve rappresentare un modello di relazione sana; e una relazione è sana se è caratterizzata da reciprocità, da un "destino" comune, da una direzione comune, dal camminare insieme. E camminare con qualcuno non equivale a farsi usare come regolatore delle emozioni (negative) altrui, anche se l'altro è un paziente che sta vivendo un'intensa sofferenza emotiva. Ovviamente è necessario essere vicini e presenti ad una persona che soffre, ma dobbiamo fare attenzione come psicologi a non trasmettere implicitamente il messaggio che, per il solo fatto di soffrire o, peggio ancora, per il solo fatto di pagare una prestazione psicologica, si è giustificati ad usare l’altro come una sostanza per alleviare la propria sofferenza.  

È sano invece avere sempre a mente - quale che sia la natura di una relazione - che di fronte a noi c’è un essere umano e non un regolatore delle nostre emozioni. L’unica eccezione è rappresentata dai bambini i quali non essendo ancora capaci di una piena reciprocità hanno un legittimo bisogno di usare gli adulti come regolatori delle loro emozioni. 

Per gli adulti invece le relazioni devono essere sempre caratterizzate da reciprocità, perché solo queste sono relazioni sane e solo le relazioni sane guariscono. 

Nessun commento:

Posta un commento